VII.
E intanto dalla Provenza, invece di canzoni amorose, arrivava un pietoso e terribile grido di dolore, di cui l'eco veniva ripercosso per tutte le valli italiane. Ivi s'era introdotta l'eresìa degli Albigesi, intolleranti della pontificia autorità, e i trovatori avevano cominciato a punger severamente i costumi d'un clero già corrotto. Era uno dei primi segni di protesta, contro un'autorità creduta sinora infallibile e indomabile. Già Pietro Abelardo aveva sollevato in Parigi un'altra tempesta, ed il suo discepolo Arnaldo era venuto in Italia a perire sul rogo accesogli dal papa: opinioni filosofiche, avverse alla Chiesa, s'erano introdotte fra noi col nome d'Averroismo. I comuni italiani davano qualche segno minaccioso d'indipendenza, mostrando di credere santo l'amore della libertà e della patria, anche quando non era benedetto dal papa. Si richiedeva un esempio contro questi audaci pensieri, e saliva sulla sedia apostolica, un uomo capace di darlo.
Innocenzo III, degno di succedere a Gregorio VII, aveva una volontà di ferro, un'attività irrefrenabile, un'ambizione smisurata. Appena si sentì in capo il triregno, scrisse ai principi della terra in tuono minaccioso, quasi a suoi vassalli. Egli, che ebbe la poco invidiabile gloria di fondare la Inquisizione, fu ancora il promotore degli ordini religiosi di S. Francesco e di S. Domenico, uomini mirabilmente adatti allo scopo che si proponeva. Il primo doveva, coll'estasi della fede, e coll'abnegazione della carità, richiamare nel seno della Chiesa le anime smarrite.
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