Federico II, nato in Germania, educato in Italia, poco amico dei preti e del papa, era un re scettico e filosofo, amante del libero conversare, di grande ingegno, d'un gusto finissimo. Intorno a lui si raccolse il fiore dei dotti italiani; convennero poeti tedeschi, provenzali e normanni d'Inghilterra e di Francia: si vedevano scolastici della Università di Parigi, e prelati romani accanto a poeti arabi o filosofi musulmani coi loro turbanti, che ragionavano insieme cogli Albanesi e i Greci dell'isola. Federico stesso, il suo figlio, il suo segretario Piero delle Vigne eran poeti e, insieme con molti Italiani siculi o di terra ferma, accordavano la loro lira con quella dei poeti francesi o provenzali. Ma il dialetto siciliano non era quello, che doveva far nascere dal suo seno la lingua italiana, nè la corte di Federico II era il luogo più adatto a dar vita durevole alla poesìa d'un popolo libero. Essa, infatti, decadde rapidamente per le vicende politiche, e la poesia cercò subito un altro soggiorno. A Bologna v'erano 10,000 studenti d' ogni parte del mondo, v'era una repubblica, e la musa di Guido Guinicelli raccolse intorno a sè varii poeti, che cercarono continuar l'opera di Piero delle Vigne e di Ciullo d'Alcamo. Altri tentativi s'erano fatti o si fecero altrove; ma Firenze s'era in modo apparecchiata a quest'opera, che tutti dovettero ben presto essere suoi imitatori.
Il dialetto fiorentino, che lo stesso Alighieri ci assicura essere stato alquanto diverso dalla lingua scritta, ne dicano quel che vogliono alcuni moderni filologi, era pur quello da cui essa naturalmente nasceva.
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