Questo piccolo municipio di mercanti, che riuscirono a distruggere nel seno della repubblica, ogni germe di feudale aristocrazia, dimostrava un singolare ardore nelle scienze e nelle lettere. La sua gioventù studiava in tutte le Università d'Italia e d'Europa; la istruzione elementare era diffusa nel popolo, come nei più civili Stati moderni. Sotto il banco di gente, che era tutto il giorno a bottega, si trovavano spesso i romanzi francesi di Lancilotto del Lago e di Carlo Magno, insieme con Virgilio, e con le poesie provenzali di Sordello di Bertram dal Bornio. Spendevano qualunque somma, per avere nel loro fondaco una lucerna disegnata da Niccolò pisano, un Cristo dipinto da Cimabue. E quando si trattava d'abbellir la città con nuovi monumenti, non v'era alcuna delle Arti, che avrebbe osato mettere limiti alla spesa. In mezzo a tali uomini nascevano la lingua e la letteratura italiana.
Ed in questo punto, bisogna fare una osservazione. La lingua italiana sorgeva tardi; ma da pertutto si manifestava con un carattere suo proprio, inalterabilmente lo stesso, diverso e, sarei per dire, contrario a quello delle altre lingue volgari. Il francese, il provenzale, il tedesco, l'inglese erano soggetti ancora ad una irresistibile e continuata mutazione: sembrava che non sapessero uscire dall'indole incerta e quasi tumultuosa de' dialetti: passavano da una forma all'altra senza mai potersi arrestare, senza trovare nè una stabile tradizione letteraria nè una sicura grammatica. Quelle lingue, che allora si parlavano e scrivevano sono ora quasi affatto scomparse.
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