Quella tendenza, che noi osserviamo continuamente nel Boccaccio, di dar carattere storico ai suoi personaggi; determinare la nascita, la patria, la vita, il nome di uomini che vissero solo nella fantasia del popolo; ci prova chiaro il bisogno di realtà e di verità, che è in lui come in tutti quanti i nostri scrittori. E così la morta poesìa finalmente rinasce, per opera degl'Italiani, in Europa.
Le medesime osservazioni noi possiamo ripetere intorno al Petrarca. È inutile fermarsi a cercare nei suoi Trionfi il nome d'Arturo e di Orlando: una tale ricerca non farebbe altro, che persuaderci come quel mondo eroico, che aveva invaso tutto quanto il medio evo, siasi dileguato, lasciando appena una debole memoria di sè. Piuttosto noi possiamo nelle sue poesie scoprire delle relazioni colla lirica francese e provenzale. Quell'artifizio qualche volta troppo visibile nella rima e nei concetti meditati, in una forma troppo epigrammatica, o anche forzatamente allegorica; quelle lodi studiate alla sua donna, trovan di certo moltissimi riscontri nei poeti che lo precedettero. Ma chi avrà pazientemente osservato tutto ciò, conoscerà, nelle poesie del Petrarca, quella parte sola che non rivela alcuna delle sue grandi qualità. Ciò, che veramente costituisce la sua poesia, e lo cava fuori della schiera volgare dei rimatori, è la descrizione vera d'un affetto nobile e gentile; la viva rappresentazione di tutti i moti del cuore umano, dominato dall'amore, fatta da chi ne ha avuto una vera esperienza, e non scrive più per artificio rettorico.
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