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      Fra poco, infatti, la passione erompe impetuosa, e la poesia sgorga, già formata, dal suo animo, come una musica improvvisa, che egli non sa più contenere. Quale era questa poesia, quale era questo nuovo linguaggio, in cui doveva più tardi manifestarsi la vita, l'anima di tutto un popolo?
      Poteva il poeta scegliere una lingua diversa da quella, con cui la sua donna lo aveva fatto conoscere a sè stesso, aveva nel suo cuore evocato la poesìa, e nell'ignoto giovanetto trovato il fondatore dell'arte moderna? Essa aveva sollevato l'animo suo ad un disprezzo profondo di tutto ciò, che era basso e volgare, ad uno sdegno superbo d'ogni convenzione, d'ogni artifizio. I retori e i pedanti, infesta genìa, che anche allora vivea, egli avrebbe odiati, se la forza del suo affetto non lo avesse trascinato troppo lontano, per ricordarsi della loro esistenza. Dalle allegorie scolastiche non si potè sempre liberare: ma nel mentre i suoi contemporanei se ne valevano a nascondere il vuoto dei loro affetti, egli, invece, se ne servì a velare l'ardore della passione che lo consumava. E così anche allora, di sotto a quelle aride foglie, sorgeva rigogliosa la schietta poesìa, come un fiore che diffonde per tutto i suoi profumi. Egli finalmente acquista la coscienza pienissima di sè, e ripete ad alta voce, che i suoi versi saranno immortali, perchè s'è lasciato guidare dall'amore stesso. V'è nella Divina Commedia un passo, che dobbiamo riportare; giacchè in esso il poeta, ripetendo ciò che aveva pur detto nella Vita Nuova, ci spiega, più chiaro ancora, la cagione per cui le sue liriche dureranno eterne.


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Antiche leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia
di Pasquale Villari
1865 pagine 287

   





Divina Commedia Vita Nuova