Lo vediamo perdersi lungamente a provare, che il paragone del sole e della luna non è giusto, e così via discorrendo. Ma a noi non occorre fermarci in un tale esame; perchè l'Alighieri, in tutte queste sottili argomentazioni, rimane un aristotelico avviluppato ancora fra gl'ingombri delle dottrine scolastiche. Se non che di tanto in tanto egli manda dei lampi di luce, che ci fanno presentire il futuro della scienza, e danno al suo libro una grandissima importanza.
Lasciando dunque l'analisi minuta del suo libro a chi ha maggiore spazio al suo lavoro, facciamo a noi stessi quest'unica domanda: Che cosa v'è di nuovo e di originale nella Monarchia, che cosa ne costituisce la grande importanza? Ebbene, in mezzo al vasto apparato di scolastiche dottrine, che l'Alighieri piglia dal suo secolo, v'è il germe fecondo d'un principio nuovo, che posto in mezzo alle teoriche imperiali e papali le farà scomparire ambedue; come il sentimento d'una patria comune, gettato in mezzo ai partiti dallo stesso Alighieri, doveva fare scomparire Guelfi e Ghibellini.
Qual sostenitore dell'Impero, Dante ha rinunziato al concetto guelfo, che non voleva riconoscere tutta l'importanza della storia profana, e quindi il valore dell'umana volontà nei fatti della storia. Roma antica era per gli scrittori ghibellini una città terrena e pagana, ma protetta e benedetta da Dio; la virtù romana ammirabile, imitabile da ogni cristiano. L'Impero germanico aveva ereditato le tradizioni del romano, e doveva rinnovarle, secondo, la volontà espressa di Dio, da cui riteneva la spada temporale.
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