E così dicendo, tirò fuori i frutti che aveva portati, e gli offrì alla moglie, pregandola di assaggiarli.
Obbedì Cantaca-Prapti, e li trovò squisitissimi, anzi di gran lunga superiori a tutti i frutti che si potea procacciarsi nelle acque dei mare. Nondimeno, anzi che dimostrare una piena soddisfazione, si rannuvolò in volto come se novelli timori l'avessero assalita.
E così era infatti. Oramai, - pensava, - assuefatto a questi squisiti alimenti, mio marito non ne potrà soffrire di nessun'altra specie, e sarà presto ripreso dalla voglia di tornare dall’amico Micco, che dalla vetta dell'attimara lo provvedeva con tanta larghezza. Il pericolo è grave, e bisogna ad ogni costo scongiurarlo. Tutto il malanno viene da quel Micco maledetto, epperò è indispensabile ricorrere a qualche astuzia per liberarsi di costui.
Pensa e ripensa, ecco che una bella mattina Cantaca-Prapti fa le viste di esser colta da una grave infermità.
- Dev'essere, - dice al marito, - un accesso di debolezza, effetto senza dubbio delle agitazioni provate per tua colpa. Ma un rimedio c'è, l'unico che mi possa guarire.
- E quale? - domandò ansioso il marito.
- Un ricostituente miracoloso, uno specifico infallibile... Dovrei mangiare del fegato, un fegato di scimmia... Tu dunque, marito mio, fa il possibile per procacciarti una di coteste bestie, e se proprio non ti vien fatto, se non riesci a trovare altri...
- Ebbene?... parla!
- Ebbene, portami qui il tuo amico Sangivaca, acciocchè io ne ingoi il fegato e ricuperi la salute.
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