— Vostr’Eccellenza non penserà così di Virgilio, dice Candido. — Io convengo, risponde Pococurante, che il secondo, il quarto e il sesto libro della sua Eneide sono eccellenti: ma per quel suo pio Enea e il forte Cloante, e l’amico Acate, e il piccolo Ascanio, e il melenso re Latino, e la villanzona Amata, e l’insipida Lavinia, io non credo che vi sia niente di più freddo, e di più disaggradevole; stimo meglio il Tasso, e le fandonie dell’Ariosto, sebbene sonniferi da fare dormire uno in piedi.
— Signore, disse Candido, non avete un gran piacere a leggere Orazio? — Vi sono delle massime, risponde, Pococurante, dalle quali un uomo di mondo può ricavar del profitto, e che, essendo raccolte in versi, che hanno molta forza, s’imprimono più facilmente nella memoria; ma io fo pochissimo caso, del suo viaggio a Brindisi, e della sua descrizione di un cattivo desinare, e della contesa de’ facchini tra un certo Rupilio, le cui parole, dic’egli, erano piene di marcia, ed un altro le cui parole erano aceto; io non ho letto, che con infinito disgusto i suoi versi grossolani contro le vecchie, e contro le streghe, e non so qual merito possa egli avere per dire al suo antico Mecenate che se fosse stato da lui aggregato alla schiera de’ poeti lirici, avrebbe colla sua fronte sublime dato di cozzo alle stelle. I pazzi ammiran tutto, in un autore stimato; io non leggo che per me, e non ho piacere se non a quel che mi aggrada.
Candido, ch’era stato educato a non giudicar cosa alcuna da per sé stesso, era molto stupefatto di ciò che sentiva, e Martino trovava la maniera di pensare di Pococurante assai ragionevole.
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