Tali somiglianze lo intenerirono e lo attristarono; e sempre più considerandoli attentamente, disse a Cacambo: — Se io non avessi veduto impiccare il maestro Pangloss, e se non avess’io, per mia disgrazia, ammazzato il barone, crederei che fossero quelli là che remano.
Al nome del barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si fermarono sul loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino accorse, e raddoppiò loro lo nerbate. — fermate, fermate, signore, grida Candido, io vorrei... — Come! questo è Candido! si dicono l’un l’altro i due forzati. — Sogno, dice Candido, o son desto? Son io in questa galera? È quello là il signor barone che ho ammazzato? e quello là il maestro Pangloss, che io ho veduto impiccare?
— Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. — Come! è quello là il gran filosofo? dicea Martino. — Eh, signor padrone! dice Candido, qual somma volete voi per il riscatto di Thunder-ten-tronckh, uno de’ primari baroni dell’impero, e del signor Pangloss, il più profondo metafisico dell’Alemagna? — Can di cristiano, risponde il levantino padrone, giacchè questi due cani di forzati cristiani son baroni e metafisici, che sono, senza dubbio, dignità grandi nel lor paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. — Voi li avrete, signore, conducetemi come un fulmine a Costantinopoli, e li avrete addirittura; ma no, conducetemi da madamigella Cunegonda. Il padrone levantino, alla prima offerta di Candido, aveva girata la prora verso la città, e facea remare con maggior impeto d’un uccello che fenda l’aria.
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