Pangloss era in disperazione per non poter fare il bello in qualche università d’Alemagna. Martino poi, era persuaso che si stava ugualmente male da per tutto, e prendeva ogni cosa con pazienza. Candido, Martino e Pangloss disputavano qualche volta sulla metafisica, e sulla morale. Si vedevano spesso passare sotto le finestre della villetta, dei battelli carichi di effendi, di bascià e di cadì, che si mandavano in esilio a Lemno, a Metelino e ad Erzerum, e si vedean tornare altri cadì, altri bascià e altri effendi, che andavano a occupare i posti degli esiliati. Si vedevano delle teste decentemente impalate, che si andavano a presentare alla Porta. Questi spettacoli facevano aumentare le dissertazioni; e quando non si disputava, era così eccessiva la noja che la vecchia osò un giorno dir loro: — Io vorrei sapere qual è la peggiore cosa, o l’essere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra’ Bulgari, l’esser frustato e Impiccato in un auto-da-fè, l’essere notomizzato remare in galera, provare infine tutto le miserie che noi abbiamo passate, oppure il restar qui a non far niente. — Questa è una gran questione, disse Candido.
Un tal discorso fece nascere nuove riflessioni e Martino soprattutto concluse che l’uomo era nato per vivere fra le agitazioni dell’inquietudine e nel letargo della noja. Candido non ne conveniva, ma non assicurava nulla.
Pangloss confessava d’aver sempre orribilmente sofferto ma siccome aveva sostenuto una volta che tutto andava a maraviglia, seguitava a sostenerlo, e non credeva a niente.
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