— Perchè non ho più i miei montoni del buon paese d’Eldorado! Perchè non son io in stato di comprare un piccolo regno! Ah s’io fossi re... — Che vi sarei io... disse una voce che colpì il cuore del nostro filosofo. — Siete voi, bella, Zenoide? diss’egli cadendole ai piedi. Io mi credeva solo; le poche parole che avete pronunziate pare che mi assicurino fa felicità alla quale aspiro: io non sarò mai re, nè forse mai ricco, ma se voi mi amate... non rivolgete da me quegli occhi pieni di vezzi, che io vi leggo un consenso che può solo compire i miei desideri. Bella Zenoide, io vi adoro; aprasi la vostr’anima alla pietà. Che vedo! voi piangete! Ah ch’io son troppo fortunato! — Sì voi siete fortunato, disse Zenoide: niente mi obbliga a celare la mia sensibilità per un oggetto che io ne credo degno: finora non avete avuto pietà della mia sorte che per i legami dell’umanità: è tempo ormai di stringere questi legami con altri legami più santi. Io mi sono consigliata; riflettete seriamente ai casi vostri, e pensate sopratutto che sposandomi, contraete l’obbligo di proteggermi, e di mitigare e dividere le miserie che forse ancora mi serba la sorte. — Sposarvi? dice Candido: queste parole mi illuminano sull’imprudenza della mia condotta. Ah! caro idolo della mia vita, io non merito da voi tanta bontà. Cunegonda non è morta ancora. — Chi è questa Cunegonda? chiese Zenoide — Questa è mia moglie, rispose Candido colla sua solita sincerità.
Restarono i nostri amanti qualche tempo senza aprir bocca voleano parlare, e le loro parole spiravano su’ lor labbri; i loro occhi erano molli di pianto; Candido tenea fra le sue mani quelle di Zenoide, se le stringeva al cuore e le divorava di baci.
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