Si abbracciarono teneramente; Candido ascoltò quanto egli veniva a dirgli, e molto si afflisse della perdita del gran Pangloss, che dopo d’essere stato impiccato e abbruciato, s’era annegato miseramente. Essi parlavano con quella tenerezza di cuore che ispira l’amicizia, quando un bigliettino che Zenoide gettò dalla finestra mise fine alla conversazione. Candido l’aprì e vi trovò queste parole:
“Fuggi, mio caro bene; tutto è scoperto. Una inclinazione innocente che la natura autorizza, e che non ferisce in niente la società, è un delitto agli occhi degli uomini creduli e crudeli. Volhall esce dalla mia camera ove mi ha trattata con l’estrema inumanità. Egli va ad ottenere un ordine, per farti perire in un carcere. Fuggi, o troppo caro amante! poni in sicurezza quei giorni che non puoi più passare presso me. Ecco il fine di quei tempi felici, in cui la nostra reciproca tenerezza... Ah misera Zenoide, che hai tu fatto al cielo, per meritare un trattamento sì rigoroso? Io mi perdo: ricordati sempre della tua cara Zenoide. Caro bene, tu vivrai eternamente nel mio cuore: no, tu non hai compreso mai quanto io t’amassi... Possa tu ricevere, sulle mie labbra ardenti, il mio ultimo addio, e l’ultimo mio sospiro! Io mi sento vicina a raggiungere il padre infelice: la luce del giorno ora mi è in orrore; essa non illumina che misfatti.”
Cacambo, sempre saggio e prudente, trascinò Candido che era fuor di sè, ed escirono dalla città per la più corta. Candido non apriva bocca, ed erano già lontani da Copenaghen, ch’egli non era ancor uscito da quella specie di letargo in cui era sepolto.
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