Finalmente volse un guardo al fedele Cacambo, e parlò in questi termini:
CAPITOLO XV.
Come Candido volesse ammazzarsi, e non ne facesse niente. Ciò che gli accadde in un’osteria.
— Caro Cacambo, un tempo mio servo, ora mio uguale, e sempre mio amico, tu hai meco divise alcune delle tue disgrazie, tu mi hai dato consigli giovevoli, tu hai veduto il mio amore per Cunegonda... — Ah, mio antico padrone, disse Cacambo, fu lei che vi ha fatto il tiro più indegno e lei che dopo aver saputo dai vostri compagni, che voi amavate Zenoide e ch’ella amava voi, ha tutto rivelato al barbaro Volhall. — Se così è, disse Candido, non mi resta che morire.
Trasse il nostro filosofo dalla sua tasca un coltellino, e si mise ad arrotarlo, con una calma degna d’un antico romano o d’un inglese. — Che pretendete di fare? chiese Cacambo. — Tagliarmi la gola, rispose Candido. — Buonissimo pensiere, replicò Cacambo; ma il saggio non deve decidersi che dopo le più mature riflessioni: starà sempre a voi l’ammazzarvi, se la voglia non vi passa. Fate a mio modo, mio caro padrone, rimettete la partita a domani; più differite, e più l’azione sarà coraggiosa. — Mi piacciono le tue ragioni disse Candido: tanto se io mi tagliavo la gola addirittura, il gazzettiere di Trevoux insulterebbe ora alla mia memoria: basta così, io non mi ammazzerò che fra due o tre giorni.
Così discorrendo arrivarono a Elseneur, città considerevole, poco lontana da Copenaghen. Essi vi dormirono, e Cacambo fu contento del buon effetto che il sonno avea prodotto in Candido.
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