— Pover’uomo, gli disse Candido, quanto vi compiango! voi dovete orribilmente soffrire. — Io soffro molto, rispos’egli con una voce da sepoltura; si dice ch’io sono etico, polmoniaco e asmatico: se così è, io son ben malato, ma intanto tutto non va male, e questo e quello che mi consola. — Ah, esclama Candido, non v’è che il dottor Pangloss, che in uno stato così deplorevole, possa sostenere la dottrina dell’ottimismo, quand’ogni altro non predicherebbe che il pess... — Non pronunziate quella detestabil parola, grida il pover’uomo; io sono quel Pangloss di cui voi parlate, disgraziato; lasciatemi morire in pace, tutto è bene, tutto è per lo meglio.
Lo sforzo ch’ei fece pronunziando queste parole, gli costò l’ultimo dente, ch’ei vomitò con una tremenda quantità di marcia. Spirò pochi momenti dopo.
Candido lo pianse, perchè aveva il cuor buono. Il suo funerale fu una sorgente di riflessioni per il nostro filosofo; egli si ricordava sovente tutte le sue avventure. Cunegonda era restata a Copenaghen, ed ei seppe che v’esercitava il mestiere di lavandaja, colla maggior distinzione possibile. La passione di viaggiare l’abbandonò affatto. Il fedele Cacambo lo sosteneva co’ suoi consigli e colla sua amicizia. Candido non mormorò contro la Provvidenza. — Io so che la felicità non è il retaggio dell’uomo, diceva egli qualche volta: la felicità non risiede che nel buon paese d’Eldorado, ma è impossibile d’andarvi.
CAPITOLO XVII.
Nuovi incontri.
Candido non era tanto disgraziato, poichè aveva un vero amico; ei l’avea trovato in un servo bastardo, ciò che invano si cerca nella nostra Europa; forse la natura che fa crescere in America le erbe proprie alle malattie corporali del nostro continente, vi ha piantato ancora de’ rimedj per le nostre malattie del cuore e dello spirito: forse vi son formati differentemente da noi: chè non sono schiavi dell’interesse personale, che son degni di ardere al bel fuoco dell’amicizia.
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