Cunegonda partì col fratello, e non vi fu che il fedele Cacambo, che non volesse abbandonare il suo amico.
CAPITOLO XVIII.
Seguito del disastro di Candido. Com’egli trovò la sua amante. La fine.
— Oh Pangloss, dicea Candido, gran danno che siate perito miseramente! voi non siete stato testimone che di una parte delle mie disgrazie; io speravo di farvi lasciare quell’insussistente opinione che avete sostenuta fino alla morte. Non v’è uomo sulla terra che abbia sofferto più calamità di me, nè ve n’è uno solo che non abbia maledetta la sua esistenza, come ce lo diceva energicamente la figlia di papa Urbano. Che sarà di me, mio caro Cacambo? — Non lo so, rispose Cacambo: quel ch’io so è che non vi abbandonerò mai. — E Cunegonda mi ha abbandonato, disse Candido. Ah, un amico bastardo val più d’una donna!
Candido e Cacambo così parlavano in carcere. Ne furon tratti di là, per essere condotti a Copenaghen. Là dovea il nostro filosofo sapere il suo destino. Ei non s’aspettava che l’orribile prigione, ed i nostri lettori pur se l’aspettano, ma Candido s’ingannava, ed i nostri lettori pure s’ingannano. A Copenaghen l’aspettava la felicità. Appena vi fu arrivato, seppesi la morte di Volhall. Quel barbaro non fu compianto da alcuna persona e ciascheduno s’interessò per Candido. Furono rotti i suoi ferri, e la libertà fu tanto più lusinghiera per lui, inquantochè gli procurò i mezzi di ritrovar Zenoide. Corse da lei, stettero un pezzo senza parlare, ma il lor silenzio diceva tutto: piangeano, s’abbracciavano, volevan parlare, e piangevan ancora.
| |
Cacambo Candido Pangloss Candido Urbano Cacambo Cacambo Cunegonda Candido Cacambo Copenaghen Candido Copenaghen Volhall Candido Zenoide
|