Quando poi le passioni si trovano rappresentate artisticamente, esse non sono più il contenuto del nostro particolare soggetto; non ci appartengono più, nè agitano la nostra coscienza: invece si trovano rappresentate come fuori di noi, come obbiettive, talchè noi sentiamo la serenità della nostra ragione anche alla vista e alla contemplazione delle passioni più tumultuose. Le passioni nell'arte non sono dunque le medesime che le passioni nella morale; e l'arte è fine a sè stessa, e non è semplice maestra e correttrice dei costumi.
Determinata così la vera finalità dell'arte, e scevrate tutte quelle altre missioni estrinseche che le sono state inesattamente attribuite, noi vediamo nell'arte la libera riproduzione della natura emancipata da ogni contingenza e da ogni necessità. Intanto qui si presenta una domanda: se la natura e l'arte differiscono tanto tra di loro, perchè noi sogliamo attribuire alla natura quella bellezza che è prerogativa dell'opera d'arte? Si deve forse dire che lo spirito si fa un'illusione nel trasportare nella natura ciò che è proprio di lui? Ovvero si trova veramente nella natura tal fondamento che possa farla chiamare bella senza timore di errare? La questione posta in questi termini non si può risolvere se non dopo avere mostrato in che consiste propriamente la bellezza.
Il bello è stato variamente definito, e la più celebre definizione che è corsa quasi fino ai nostri tempi, è stata quella di Sant'Agostino e di Leibnitz, che il bello è il consenso nella varietà. Questa definizione esprime al certo una proprietà del bello, ma non ne svela l'intima natura: è una determinazione quantitativa la quale si arresta, come tutte le determinazioni di questo genere, alla mera superficie.
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Sant'Agostino Leibnitz
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