Operando come autonomo egli deve non sol rispettare nella sua libertà la legge morale, ma altresì trovare in lei il solo motivo della sua determinazione. Perchè un'azione fosse morale non si richiede soltanto la sua conformità colla legge; ma si richiede di più che essa sia stata fatta per la sola rappresentazione della legge senza mescolanza di altri estranei motivi. È questo ciò che Kant chiama il respingere fieramente l'alleanza colle inclinazioni; lo che forma forse la sublime esagerazione della morale kantiana.
Ma l'uomo vive nel mondo e come essere sensitivo vi è inevitabilmente legato. A soddisfar le sue inclinazioni egli non può fare a meno degli obbietti sensibili. L'uomo basta a sè stesso per essere virtuoso, ma per essere felice ha bisogno del mondo esterno. La felicità è l'eteronomia dell'uomo, come la moralità è la sua autonomia. Questa proporzione che corre fra l'uomo come intelligibile e l'uomo come sensibile è il fondamento dell'antitesi che Kant rinviene tra la virtù e la felicità.
Egli, d' altra parte, sente che l'uomo virtuoso merita felicità, perciò crede ristabilire ad ogni costo quell'armonia che non sa trovare nel mondo e la cui mancanza pertanto lo addolora. Quanto meno esigente deve essere l'uomo virtuoso nel fare il suo dovere disinteressatamente e senza la mira di diventar felice, tanto più è degno di esserlo; e la felicità non cercata è per Kant un premio riservato all'austera e disinteressata virtù.
Qui la morale di Kant si sottrae a questo mondo e per effettuare l'armonia, tenuta come necessaria, ricorre al sovrano bene, a Dio.
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