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Quando io leggeva quest'opuscolo ventisei anni sono, mi pareva non scevro di esagerazione il Carlyle, sebbene egli fosse lo scrittore idolatrato dalla gioventù d'allora; ma quando io visitava le prigioni di Napoli, le Case di pena di Sant'Eframo e fino i Bagni di Nisida, mi associava pienamente alle sue critiche e sentiva tutta la forza della sua invettiva.
Oggidì la pena di morte è virtualmente abolita. La società moderna sentesi talmente convinta della sua ingiustizia e della inutilità come esempio, che nei casi più flagranti di delitto, o il Giurì non la applica o trova circostanze attenuanti; e se il giudice condanna, il pubblico manda al capo dello Stato una petizione per grazia, e il reo finisce per essere oggetto di commiserazione, invece di giusta riprovazione.
Divengono poi sempre più rare le condanne di galera a vita, o se avvengano, le pene sono commutate. L'idea di vendetta, l'idea unica che in altri tempi informava le legislazioni penali, è bandita, e giustamente, perchè la vendetta offusca la mente di chi la esercita, come il cane idrofobo comunica il proprio veleno ad altre vittime, e così di mano in mano. Tutti accettano che debbasi trovare il modo di convincere del misfatto il reo, ispirargliene orrore, cosicchè ritornato alla società, o per vera penitenza, o per paura delle conseguenze del male, egli non abbia a ricommetterlo. Ma per ottenere questo scopo, bisogna fare in modo che, venuto il dì dell'uscita dalle carceri, tale sia stata la punizione che, quando Dio non lo privi della ragione, non passerà mai più l'aborrita soglia, ove ogni cosa, ogni fisonomia, ogni occupazione gli diceva: «Sei reo.
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