nella camera della moria, e bisognò chiamare altre persone per vestirla.
n racconto di cotesto fatto agitava in modo particolare la mia fantasia di fanciullo; e vedevo e rivedevo quelle forme ceree di cadavere che ricadevano sul letto, e quei due uomini che scappavano atterriti.
Molto prima dei nonni, era morto in casa nostra un lontano parente, don Pietro Mattei, laureato in legge: cosa rara a quei tempi, perchè, per esercitare la professione d'avvocato, bastava essere forniti della Licenza. Egli, rimasto solo, vecchio e senza parenti prossimi, combinò coi miei nonni, come allora s'usava, assai più spesso di oggi, un vitalizio; e lo accolsero in casa, e gli assegnarono una cameretta, che, per lungo tempo, fu poi chiamata, anche dopo la sua morte, « di don Pietro ». Presto si sviluppò in lui la pazzia, che quasi a giustificare il casato, era ereditaria nella sua famiglia ; e pazzo, d'una pazzia malinconica ed innocua, se ne morì. Tre oggetti a lui appartenuti rimasero a lungo nella mia famiglia : un soprabito di seta color nocciuola, alla moda del settecento, un gilè di raso bianco ricamato in seta a colori vivaci, e un rotolo di pergamena: la laurea. Io e i miei fratelli ammiravamo in modo speciale l'enorme sigillo di ceralacca che l'accompagnava, contenuto e chiuso in una scatoletta di latta. Il soprabito e il gilè ci servivano spesso per mascherarci ; e ci erano, per lo stesso scopo, domandati qualche volta in prestito da amici e parenti. La pergamena fu a poco a poco tutta consumata da noi bambini, inconsci] ministri, come tutti i bambini, di distruzione e di rinnovamento, per farne delle « ranocchielle » come dicono a Firenze, o, come dicevamo noi, delle « cicale » ; e così, osserverebbe un maligno, quella pergamena, invece d'un avvocato solo, ne fece venti o trenta.
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