occhi sbarrati e fissi a dimenare in qua e in là la testa minacciosa e tremolante.
Rimasi a Catanzaro quattro anni e mezzo. In tutto questo tempo ebbi tre o quattro presidi e due o tre provveditori. Dei presidi uno fu abbastanza buono, uno mediocre, ma un po'ridicolo, uno sciocco e birbante, che credo fosse una vecchia guardia di pubblica sicurezza e non poteva aprir bocca senza dire uno sproposito; e uno, benché di qualche ingegno e cultura, una vera canaglia. Queste persone o malvagie o ignoranti, o l'uno e l'altro, erano state mandate a Catanzaro in seguito a inchieste, per far scontare a noi disgraziati i peccati che avevamo commessi e che dovevamo forse commettere. Fra le pene dell'Inferno Dante ha dimenticato di metter quella di dover sottostare a persone manifestamente a noi o intellettualmente o moralmente inferiori.
Tra i provveditori merita di esser ricordato un curioso tipo di poeta, di qualche nome nell' Italia meridionale. Lunga barba bianca fluente e dirò mosaica, capelli piuttosto lunghi riuniti a ciocche e arruffati, sguardo malinconico e romantico: questo l'aspetto: l'animo, un pazzo. L'uffizio era in mano degli ispettori e degli altri impiegati: il provveditore aveva altro da fare: egli era nella stanza è vero, ma invece di sfogliar carta bollata e risolvere le questioni dei maestri dei comuni, sfogliava poeti e scriveva versi. Nulla sapeva degli affari e non prestava mai ascolto alle persone che gli parlavano, rapito com'era nelle altezze di Pindo. Diventava a un tratto tutt'orecchi se qualche furbo cominciava a lodargli i suoi versi. Con questo mezzo tutto si otteneva. Al suono delle lodi egli s'inebriava e se non aveva i versi sul tavolino, apriva il cassetto e metteva fuori un quaderno, con re-