gli scogli che dovevo evitare. Io non pronunziavo poheia per poeta come gli abruzzesi puri, anche istruitissimi, nè dicevo sentir di dire per sentir dire, nè coppola per berretto, nè luogo accorsato per luogo affollato. Avevo sì l'accento abruzzese, ma questo che importava? Non è per l'accento che sono ammirati i toscani e meno che mai i fiorentini. E poi io non dovevo insegnare ai miei scolari quello che essi sapevano anche troppo, cioè a parlar toscano, io dovevo fin dove è possibile insegnar loro a scrìvere, che è ben altra cosa. Tutto questo i miei avversarli (se cosi possono chiamarsi) lo sapevano, ma fingevano di non saperlo, e andavano, come ho detto, ripetendo che arrivava un ciociaro. Il male, per altro, si fu che il suono della mia piva non tornò sgradito ai miei scolari, che stettero ad ascoltarmi con grande attenzione, e oggi dopo sedici anni continuano ancora ad ascoltarmi con grande attenzione.
Agli scolari piaceva, almeno così mi sembrava, il mio modo vivace di far scuola: a scuola mi piace mostrarmi quasi sempre di buon umore e come animato da un' intima sodisfatene, che non mi £bl sentire il peso del lavoro. Bisogna che io mi senta molto male, perchè abbia l'aria di stanco. Non lascio oltre a ciò passar nessuna occasione opportuna di dire scherzi e raccontare aneddoti, che portano come un soffio d'aria fresca nell'aria mefitica ed oleosa della scuola. Ma non dimentico mai che il mio uffizio è principalmente quello d'insegnare, e quindi cereo, d'insegnare anche quando rido. Solo mi piace indurre nei miei scolari la persuasione che non è necessario che la scienza sia musona, abbia gli occhiali con le staffe e annusi tabacco. Entro in molta confidenza con tutta la classe, ossia con gli studenti quando sono insieme, naa tratto piuttosto a distanza gl'individui. Quello