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Contemplazione della morte

Gabriele D'Annunzio
Il Vittoriale degli Italiani, 1941, pagine 124

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   mi aveva detto: « Va' e gioisci. Beviti le musiche degli uccelli e dei venti, abbagliati delle luci, inebriati degli odori. Una vipera ti ucciderà ».
   Andai, e cercai la mia vipera. Portavo leggeri san? dali di sparto legati ai malleoli con corregge sottili. Tanta era l'attesa che, quando mi sentii mordere la prima volta, non potei trattenere il grido. E fami pallido in quell'aria affocata mi pareva ma sorta di voluttà eroica. Guardai. Non era se non la puntura d'una spina: il sangue gocciolava, e tutte le vene del piede erano gonfie per lo sforzo del camminare nella sabbia ardente come la brace, o su gli aghi arroventati come gli schisti del deserto. « Non ancora. »
   E seguitai, senza guardare a terra, entrando sempre nel più folto. E a ogni puntura dicevo: « Ecco ». E non era se non un aculeo più acerbo. E ogni goccia di sangue • mi pareva più preziosa. E tutti i miei sensi divenivano soprannaturali, perché creavano una natura più potente e più bella.
   Vedevo fumare dai cespugli l'aroma, la vita del pino brillare di sotto la scaglia come la porpora nel murice, l'esiguo triangolo chiaro nella coccola del ginepro signif' care il mistero d'un dio verde, il cui baleno era la lucertola guizzante.
   E seguitai, seguitai, sanguinando, ma senza trovare la mìa vipera. Se i miei piedi erano gonfi e dolenti, il mio capo era perspicuo e lieve come nel santo digiuno.
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