Stai consultando: ' Contemplazione della morte ', Gabriele D'Annunzio

   

Pagina (8/119)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (8/119)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Contemplazione della morte

Gabriele D'Annunzio
Il Vittoriale degli Italiani, 1941, pagine 124

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Home Page]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   E io, il quale volli un tempo essere un Maestro, ora so come nulla di ciò che è veramente vivo e divino possa essere insegnato.
   E io, che piti d'una volta respinsi l'ingiuria, ora corno prendo la parola del Crisostomo: « che niuno non può essere offeso, se non da sé medesimo ».
   E io ricevo ora la forza di tutti i miei errori vinti e di tutti i miei mali superati, come quel cavaliere del romanzo carolingio, il quale ereditava il potere di quanti uomini e mostri abbattesse la sua lancia.
   E so che gli occhi lontani di quelli che piansero e piano gono su i miei errori e su i miei mali non possono essere né puri né profondi.
   E chi prende e soppesa taluna delle mie opere, consu deri una delle tante mie parole che il tumulto impedì d'ino tendere : « I figli miei concetti nell'ebrezza — come delitti sacri alla dimane... »
   E chi mi ama sappia che di ogni mia dimora distrutta io ho sempre potuto serbare la pietra, che porta inciso l'enigma della mia libertà: « Chi '1 tenerà legato ì »
   Echi mi segue sappia che, perfino nella mia nave piena di sozii, l'istinto implacabile della liberazione mi spinse più d'una volta a gittarmi solo in mare come il poeta di Metimma, ma senza ricorrere al delfino salvatore.
   E non vorrò mai esser prigioniero, neppure della gloria.
   E non vorrò mai riconoscere i miei limiti.
   13