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Contemplazione della morte

Gabriele D'Annunzio
Il Vittoriale degli Italiani, 1941, pagine 124

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   O mio giovine amico, talvolta la giovinezza mi chiama dalle viscere della città come la sirena dall'abisso; e ac corro, ansioso, alla mia maraviglia e alla mia perdizione. Amo cercare nel traffico e nell'ignominia della via gli occhi dell'Ignoto, gli occhi fissi che mi sfidano, gli occhi obliqui che mi sfuggono, sotto il rombo senza pensiero. Ho su la lingua la cenere dei miei sogni, e la mastico per non esserne strozzato.
   La penultima sera d'aprile ebbi nella via un compagno ventenne: un volto imberbe modellato dal pollice ferreo del Destino come quello del fiammingo Beethoven; un cuore chiuso in cui forse sonavano le quattro note spaventose della Sinfonia Quinta.
   Andavamo a paro, oppressi da uno di quei cieli d'ura" gano bassi e rossastri, sotto i quali Parigi sembra schiw mare e fumigare come un bulicame enorme. La carta dei giornali, ond'era invasa tutta la città, pareva elettrica come quando esce tesa dai cilindri della cartiera nei giorni secchi scoppiettando di scintille. Il bandito famoso era morto laggiù, nella casa diroccata e arsa, dopo l'assedio feroce e ridevole, gittando l'ingiuria suprema fuor del suo capo forato da dodici palle. E, mentre era celebrato nei fogli l'eroismo degli assediatori coperto di materassi, l'atroce parola plebea pareva fosse per rimaner sospesa su l'immensa adunazione dei tetti sicuri, fino al crollo totale.
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