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direi, che più su, più giù, il dialetto che parlavano i nostri arcavoli ai tempi dell'Impero Romano, era press'a poco questo, che parliamo ora noi, loro nipoti di quasi due mila anni dopo.
Del resto, non so chi, ma mi pare il Diez, ci aveva fatta notare la maggior affinità alla lingua latina dei dialetti italiani, in paragone della lingua aulica italiana.
Giacché ora di un'altra cosa non si può più dubitare, ed è, che ben altra era la lingua che parlava Marco Tullio Cicerone, e quella che parlavano la sua cuoca ed il suo guardaportone, se li teneva. — Chi se ne vuoi persuadere scientificamente legga quanto ne hanno scritto i dotti, e per citarne uno, legga tutta l'introduzione che il Diez ha messo innanzi alla sua Grammatica delle lingue Romanie, nella quale egli non teme di dire che è tanto certa l'esistenza di questo Latino popolare, che si ha il diritto di domandare le prove piuttosto a quelli che sostengono il contrario (i). Il guaio è che di questo latino popolare non ci restano che pochi documenti, ma quelli che restano non lasciano alcun dubbio su questo punto.
Ora io, man mano che se ne presenterà l'occasione nel saggio di Grammatica ed in quello di Lessico, noterò le maggiori affinità, che, a preferenza della lingua illustre italiana, ha il nostro dialetto col latino, sieno esse affinità fonetiche, mor-fologiche, sintattiche, sieno lessicali ; ma qui ne vo' citare una sola, tanto più che non potrà trovar posto altrove.
Chi di voi, o miei lettori, potrebbe sognare un'affinità qual-siasi tra il dialetto di Teramo, che sta nel bel centro d'Italia, e la lingua Valacca, la quale vien parlata da un popolo, migliaia di miglia lontano da noi, e che da noi differisce per la lingua, i costumi, la religione, il governo, il clima, e financo per gli abiti, loto cceìo, come direbbe un filosofo scolastico — e di cui, né noi," né i nostri padri, nonni, o bisnonni hanno visto mai un échantillon ?
(i) Op. cit. Tom. I, pag. i.