Stai consultando: 'La Contea di Apruzio e i suoi conti Storia teramana dell'Alto Medioevo', Francesco Savini

   

Pagina (148/286)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (148/286)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




La Contea di Apruzio e i suoi conti
Storia teramana dell'Alto Medioevo
Francesco Savini
Forzani & C. Tipografi del Senato, 1905, pagine 271

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Home Page]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   XIX. Rinaldo I.
   143
   11. Non sappiamo se da tale disgrazia il conte Rinaldo più si rilevasse e neppure quanto tempo vi sopravvivesse; ma certo questo non fu lungo, nò totale dovette essere la perdita della contea, giacché ne vedremo più innanzi (n. XX) il tìglio Monaldo fregiato del titolo di conte aprutino. E da credersi perciò, che il conte Rinaldo perdesse soltanto i villaggi nominati nel suddetti tre atti imperiali e qualche altro dell'antico territorio, perocché con altro diploma imperiale dei 10 di aprile del 1195 (1) Enrico VI donava a Berardo, suo cappellano ed arcidiacono di Ascoli, S. Omero e Ac-quaviva, feudi che abbiamo veduto (n. XV, § 10) appartenersi ai conti de Apnitio. Certo però non tutta la contea perdette Rinaldo e la sua famiglia, giacché appunto in quest'ultimo diploma si aggiunge, che gli uomini di S. Omero «nulli etiam Comitum vel homi-« nura illius terrae hominium sive fìdelitatem faeiant». Dunque i conti aprutini continuarono a godere, dopo quelle diminuzioni, almeno parzialmente della loro autorità.
   12. Dal vivace e colorito racconto del contemporaneo cronista di Carpineto spicca evidente il carattere del nostro Rinaldo: egli vi appare vendicativo contro chi non era riguardoso ai suoi diritti, venale nel render giustizia c astuto nella condotta politica. Il buon monaco Alessandro, piena la mente delle gravi iatture cagionate al suo diletto monastero da Rinaldo, come ce ne manifesta i vizii, non ce ne rivela i pregi, i quali, anch'essi, comune dote dell'umana natura, non doveano venir meno neppure nel nostro personaggio.
   (lj UtiHELLi, op. e loc. cit.