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PRIMO VOLUME


Si ringrazia il Prof. Lucio De Marcellis che ha reso disponibile la trascrizione elettronica di questo testo

Testo della integrazione, scritta da Niccola Palma ma inserita solo sulla seconda edizione (curata dal prof. Vittorio Savorini) della “Storia ecclesiastica e civile della regione più settentrionale del regno di Napoli detta dagli antichi Prætutium oggi Città di Teramo e Diocesi Aprutina”, Teramo, Giovanni Fabbri editore, 1890

(1° volume, pagine 90-105)

Un monumento ora ora fortuitamente scoperto, ed una più sicura interpretazione di un altro [il Palma si riferisce al cippo miliario rivenuto in contrada Vallorina a S. Omero nel 1823 e riprodotto anche dal Delfico, che sarà ampiamente descritto più avanti], mi danno impulso a parlare più accuratamente delle strade, le quali traversarono l’agro Pretuziano lungo il corso de’ nostri fiumi.


Strada del Vomano.

La colonna migliare nelle parrocchia di Poggio-Umbricchio, in sostegno del vaso dell’acqua lustrale (a tal uopo colà trasportata dalla sottoposta pianura del Vomano) segnante il numero CIHI ci forniva una pruova dell’avere i Romani aperta una via, la quale partendo dalla grande Salaria, dopo aver condotto ad Amiterno, s’innoltrava alle sponde del Vomano, per più spedita comunicazione fra Roma e le sue colonie Pretuziane e Vestino-Pinnensi. Un monumento solo però non basta ad indurre quella certezza, che nelle storiche notizie si desidera: e quand’anche da esso si avesse potuto argomentare francamente che una Romana via avanzata si fosse sino a Poggio-Umbricchio; rimaneva il dubbio se avesse continuiato a correre fino al ricongiungimento colla Salaria nelle spiagge del Supero, e per quale direzione. Del nome suo poi erasi totalmente all’oscuro. Un frammento di tavola di bronzo rinvenuto da un contadino zappando il terreno nel piano di Guardia, pochi passi discosto dall’attuale strada, e dora custodito nella mia collezione di anticaglie, finisce a dimostrare l’esistenza della divisata Romana traversa: indica che, indipendentemente da un braccio steso ad Interamnia, ella proseguiva il corso fino all’Adriatico per la pianura sinistra al Vomano: e ch’ebbe il nome di Raursa.


…IL…
…OL. ET …
… RAETORE…
… TVM. QVO. DE. EA …
… ICTATORE. CONVULE. I …
… VIAE. RAVUSSA. NON. POST …
… O. EVII …


Al primo esaminarlo, facendo attenzione alle caratteristiche di Pretore, di Dittatore e di Console, non che al sito in cui fu trovato inclinai a credere che la strada in parola fu opera Romana, e che senza punto finire a Poggio Umbricchio, o ad Interamnia, proseguiva il corso di qua dal Vomano fino alla Salaria del littorale. A convincermene pienamente ho voluto indagare se lungo il fiume si ravvisassero vestigie di ponti; imperocchè dovendo essersi tracciata la strada or di qua or di là, secondo che la larghezza delle rive offriva maggiore opportunità; i ponti si rendevano necessarî. Non occorreva cercarle da Montorio in sotto, ove il Vomano avendo di troppo dilatato l’alveo; la veemenza delle piene le avrà cancellate: ma da Montorio in sopra ho ben riconosciuti gli avanzi di due ponti di Romana costruzione: di uno, a due miglia e mezzo al nord-est di Poggio-Umbricchio, del quale rimane massiccio pilastro sulla sinistra sponda: e di un altro nel piano detto di Galluccio, circa un miglio ed un quarto al libeccio di Tottea. Il primo volgo, ignaro della solidità delle opere Romane, tiene per fermo che il secondo innalzato venisse dai Palladini, nel suo equivalenti a giganti a causa della grossezza dlle Pietre (fino ad esservene una rimasta lunga 15 palmi, larga 4 ed lata 3) regolarmente tagliate e maestrevolmente tra loro incassate, senza aiuto di cemento. A giudicare da questo bel rudero, che tutto nella riva destra rimane, il ponte, comprese le due pile o teste, avrebbe avuto 30 palmi di lunghezza, stante che ivi il Vomano è ancor povero di acque, ed 8 di larghezza: la quale a chiunque consossa la strettezza degli antichi cocchi, o abbia attenzione alle rotaie nelle vie di Pompei, non impedisce il congetturare che la strada fosse rotabile. Ed ecco quale esser dovea il cammino da Roma a noi. Passato Introdoco (Interocrium) staccavasi dalla Salaria un ramo verso l’illustre città di Amiterno, attraverso Rocca di Corno (sia questa o no surrogata a Fisterne) Città Tomassa (Foruli) e Preturo (Praetorium Amiterni). Da Amiterno (oggi S. Vittorino) altri viatri partivano. La Raussa, che noi concerne, per le ville di Pizzoli e nel piano di Porcinaro, intromettevasi, come tuttavia s’intromette il miserabile sentiero chiamato di Vallucci, nella gola tre termini, la cui nomenclatura dura ad istruirci che in quella strettoia fra l’Appennino Rassiccio ed il crescente Vomano coincidevano tre pertiche, la Sabina cioè la Pretuziana, e la Vestino-Pinnese: donde lasciando a dritta Nerito, ed a manca Tottea, giungere per la più breve linea all’Adriatico, presso la foce del medesimo fiume. Quivi, ma più a sirocco dell’imboccatura attuale, la ramificazione riunivasi al tronco là dove i Pretuziani aveano un porticello, ed un porto con castello gli Atriani. Perciò non alle convicine popolazioni soltanto era dessa utilissima, ma eziando alle Sabine le quali dispensate dal seguire la tortuosità della Salaria per la volta degli odierni Sigillo, Posta, Bacugno, Torrita, Grisciano, Trisungo, Quintodecimo, Ascoli etc. profittavano certamente di questo compendiario sbocco al mare onde imprtarvi i loro prodotti ed asportarne estere merci. Colla ruina di entrambi gli emporî e col deperimento delal Raussa, tanti beni sono perduti. Malagevole impresa ora sarebbe il ripristinarla dalla pianura di Porcinaro sino al piano tra Miano e Forcella, a causa degli sfaldamenti delle coste del Vomano: men difficile il restituirla da quel sito, donde il simulacro che ce ne rimane diviene naturalmente rotabile, fino alla regia strada sostituita alla Salaria. Con soddisfazione apprendo che a ciò dalla comune di Montorio e da altre dodici interessate già si vada pensando, e che all’uopo siensi avanzate petizioni e progetti al consiglio del distretto e della provincia. Tanto piacevoli illazioni cadrebbero non di meno qualora la distanza da Roma a Poggio-Umbricchio non fosse di 104 miglia: ma ecco appunto un’ultima pruova dell’autenticità della nostra colonna. Chi non si è contentato delal lezione comune dell’itinerario Antoniniano, riferita al di sopra, l’ha corretta così, mercè le edizioni datene dal Peutinger, dall’Ortelio e dal Berti Fidene V. Fornovo VII. Ereto V. Rieti XXXII. Cotilia VIII. Interocrea VI. Sono dunque da Roma ad Introdoco 63 le miglia. Falacrine XVI. Vico Badiens IX. Centesimo XII. Ascoli XXII (122). Castel Truentino XX (142) Castro novo XII. Atri XV. Rimane dunque a veder solamente se l’intervallo da Introdoco a Poggio-Umbricchio sia di 41 miglio. Nella mancanza di un’esatta misura, bisogna attenersi alle deposizioni dei trafficanti, e nell’inevitabile discordanza di costoro, ad un numero medio, il quale è di 33 miglia napoletane. Or se mettesi a calcolo che il miglio napolitano porta ad un quinto di più dell’antico Romano, o circa, e che l’incuria, gli sfaldamenti e consimili eventualità debbono aver renduto alquanto più lungo il cammino; verremo in chairo che l’intervallo suddetto sia stato di 41 miglio antico, e che il numero 104 a meraviglia corrisponda da Roma a Poggio-Umbricchio.

In Ordine poi al braccio della Raussa, per Interamnia, abbiamo due indizi per non crederlo nell’area diverso da quella tra le attuali vie da Montorio a Teramo, per la quale lasciandosi Fornarolo ad ovest, l’antico Bagno e Rucciano ad est, si guazza Tordino al passo del Castello: 1. perché le naturali posizioni piuttosto per tale drittezza che per altra consigliavano ad aprire una strada regolare: 2. perché ad essa soltanto è rimasto il nome di Salara. Se oggi non è frequentata d’inverno, quantunque la più breve; la denominazione delle cese contratta da uno dei fossi, che l’hanno devastata, c’istruisca di aversi a numerare il guasto delle strade tra gli effetti delle sconsigliate stragi di alberi. La traversa di cui parliamo, a circa due miglia e mezzo dalla città, confondevasi


colla strada del batino o tordino.

Non vi ha verisimiglianza che stata fosse opera Romana. Ma molte popolazioni a libeccio d’Interamnia aveano bisogno di comunicare col capo-logo. E ben a tale necessità provvidero, facendone fede una pila di ponte di grosse e riquadrate pietre, ancor esistente accosto alla chiesa perciò denominata Madonna del ponte nel tenimento di Fornarola sulla quale testa, a memoria de’ vecchi, tuttavia discernevasi la prima curvatura dell’arco. Elleno stesse, non che gl’interamniti aver doveano un adito al mare, alla Salaria, a Castro, all’emporio sulla foce del Batino. Alcuni segnali di vecchi ponti, segnatamente sopra il torrente Fosso de’ banditi, così appellato dagli aguati di mal affare, cui due grandiosi superstiti ricurvi massi fornivano tentazione di appiattarsi a spogli azza de’ passeggieri: il ponte a due ordini di mattoni, che integro rimane là dove a castro imbocca vasi: la serie d’inumazioni rinvenuta nel 1822: un rudero di nucleo di sepolcro sporgente da terra nella pianura sottoposta a selva de’ Colli, ed i varî che ne rimangono nel territorio di Giulia, al lato manco di chi parte da Teramo: le menzioni d’una via Salaria nella fondazione del monastero S. Niccolò a Tordino nel 1004 ed in altre carte del medio evo; ogni cosa convince che il corso suo da Interamnia a castro era costantemente sulla riva boreale del fiume, e che quasi coincidesse colla distrettuale nuova.


Strade del Salino e della Ubrata.

Allorchè ebbi contezza della letterata lapida di L. Cecilio, impedito dal recarmi a Vallorina, incaricai il Sig. Ranalli preposto di Poggio Morello di un fac simile, cui esattamente mi attenni nel pubblicarla: perplesso se quella fosse vera colonna milliaria, ovvero sepolcrale cippo di colui ch’ivi trovossi umato. Ma giuntone esemplare all’eruditissimo conte Borghesi in S. Marino, ha egli deciso (Bull. D. Inst. D. cor. Acheo. 1883, p. 102) aversi nella seconda linea a leggere METellus coS, ed esser manifestatamente la pietra una colonna migliare dei tempi repubblicani. Pervenuto a me come agli altri socî il bullettino, volle in propizia stagione recarmi a Vallorina onde esaminar la lapida cogli occhi proprî, e la trovai prostrata avanti al tugurio dell’inventore Francesco Lancianesi, non lungi dal sito dond’erasi estratta. Fattala rialzare (avvertenza che il Ranalli non ebbe) essa m’ingerî un non so che di rispetto, e quel presentimento di autenticità, che al primo a esser veduti ispirano i monumenti classici genuini. Quello di cui parliamo consiste in cilindro o più tosto in cono tronco, dell’altezza di poco men di tre palmi piantato sopra base quadrata. Nel fusto si legge


L. CAECILI Q. F.
METELL. COS
CXIX
ROMA

Borghesi dunque ha colto nel segno, e più non potendosi dubitare che questa non sia vera colonna migliare; prego i lettori a considerarla trasferita dal cap. VIII al VII, avendo alle strade dei Pretuziani rapporto. Pur di meno il Ranalli è degno di scusa. La pietra è calcarea lacustre, e perciò pieno di pori dilatati dall’umido e dai geli, nei secoli, ne’ quali è stata a sgretolarsi sotterra. Ed appunto un poro nel secondo verso l’asta orizzontale del T da farlo comparire I, ed altri pori meno significanti aveano maltrattato EL e CO: ond’egli, che prostrato e con disagio si era contentato deciferar l’iscrizione, attenendosi all’esattezza inculcatagli e ad un pretto tuziorismo, limitato erasi a trascrivermi le lettere che a lui parvero innegabili MEI….S, sebbene anche le sigle EL e CO, sieno chiare abbastanza. Il monumento pregevolissimo serviva intanto a rustico sedile, ed a rompervi sopra lino e canape: correva in oltre il rischio di venir seppellito in qualche fondamento di nuove fabbriche. Si dee quindi saper buon grado al sig. Zefirino Tanzi, il quale a mie premure lo ha fatto trasferire e lo ha preso a conservare in S. Omero.

Non più della lapida per sè stessa, e tentiamo piuttosto desumerne storici corollarj. L’esimio archeologo Borghesi, posto da banda altri L. Metelli, la cui esclusione per una ragione o per l’altra rimane manifesta, e riducendosi ad indagar se all’epigrafe avesse dritto L. Cecilio Metello Calvo console nel 612 di Roma, ovvero L. Cecilio Metello Diademato console nel 637 l’uno e l’altro figliuoli di un Quinto, dimostra averlo avuto Diademato figlio di Q. Metello Macedonico. Tutto ciò da suo pari. Da un dotto lontano però non conviene attendere esatte indicazioni locali de’ nostri paesi poco nell’estero conosciuti: ed è per noi inesatto quel ch’ei soggiunse: «Fra le antiche vie provenienti, come affermasi questa, non se ne conosce alcuna dominata cecilia o Metella, onde la presente colonna migliare non spetterà all’apertura di una nuova strada, ma piuttosto alla riparazione di una antica. La posizione di S. Omero, ov’è stata trovata, che la carta geografica mi colloca tra i fiumi Tronto e Trontino, ossia Truentum e Batinus, non mi lascia esitare nel credere che questa via fosse la Salaria, che secondo l’itinerario Antoniniano provenendo da Ascoli passava per Castrum Truentinum, e pel Castrum novum: due Città poste nelle vicinanze di quei fiumi». È S. Omero collocato fra il Tronto ed il Tordino, ma non sulla spiaggia marittima, tra Castro e Truentino e Castro nuovo, lungo il corso della Salaria. Un estero scrittore (il ripeto) non era obbligato a sapere cotali minute monografie: avrebbe potuto soltanto riflettere che se la via cui il monumento si riferisce stata fosse la salaria, quello non porterebbe il numero 119 ma un numero superiore a 142 o almeno a 139 quante sono le miglia intercedenti fra le città per eccellenza e Castro Truentino, giusta il citato itinerario. Essa è dunque una via diversa dalla Salaria propriamente detta: è (come la Raussa) un ramo che partiva dal tronco al di spora degli orientali Appennini, ed al tronco tornava sull’Adriatico littorale. Nella stessa guisa in somma che i Romani aprirono un adito fra i Pretuzj ed i vestini-Pinnesi, anche a disegno di tenere con un solo mezzo in soggezione due popoli; aprir lo vollero fra i Pretuzj e di Piceni-Ascolani. Che se tra le antiche vie provenienti da Roma non se ne conosceva finora alcuna denominata Cecilia o Metella; aggiungasi, io replico, questa alle tante istoriche scoperte al rinato studio dell’epigrafia dovute, quante mensilmente ne additano i bullettini del benemerito Instituto di archeologica corrispondenza. Né meno potrebbe sostenersi che per Vallorina transitata fosse una strada provinciale da Ascoli ad Interamnia o a castro; poiché, prescindendo che Vallorina è fuori linea di entrambe le immaginate direzioni; assurdo sarebbe ch’essendo la distanza da Roma ad Ascoli di 119 o di 122 miglia, secondo le varianti lezioni dell’itinerario; di 119 fosse a Vallorina, da Ascoli lontana almeno altre 12 miglia. Molto meno idear si potrebbe che il braccio della Raussa steso ad Interamnia, proseguendo fino a Truento, onde ivi congiungersi colla Salaria o colla Flaminia, toccato avesse Vallorina; giacchè, anche nella supposizione della linea più breve, numerandosi da Roma a Poggio-Umbricchio 104 miglia, da questo a Teramo 11 miglia napoletane, ed altre 14 da Teramo a Vallorina; la colonna avrebbe dovuto segnare non 119 ma 129 anzi 124. In fine qui si parla di un Console Romano, e dell’intervallo non da quella o questa città, ma da Roma. Bene dunque assodato che la strada, la quale passava per Vallorina e già protratta per 119 miglia, provenisse dalla città eterna; proviamo da tale dato ad investigarne l’intero corso, fissando in prima colla debita precisione il sito, ove il prezioso monumento fu rinvenuto.

Circondato dai contadini di Vallorina, alcuni de’ quali aveano avuto parte allo scavo del 1823 mi portai dalle case Lancianesi al punto, onde la colonnetta erasi estratta collo scheletro, sulla base di essa poggiante la testa, e coi rottami di opere laterizie che aveano composto un sepolcro non molto largo, a loro detto, ma assai profondo. Tale punto rimane due miglia ad est di Sant’Omero, in un terreno già de’ feudatarj di questo, oggi de’ Sigg. de Sanctis di Torano, lungo una strada, la quale divide la contrada Vallorina ed il tenimento di S. Omero al sud, dalla contrada S. Eupupa e dal territorio di Corropoli al nord. Una colonna migliare, un sepolcro (gli antichi ne aveano di ordinario sulle strade) una via rimarchevole per aver separate giurisdizioni ecclesiastiche e civili; tutto m’induceva a credere esser dessa stata la via, che a noi è lecito e piacevole chiamar Metella. Una difficoltà sola affaccia vasi alla mente: e perché condurre la strada fino a quell’eminenza, e non piuttosto lunghesso la sottoposta pianura della Umbrata? Accostandomi però al fiume. Immantimenti dilegguosi il dubbio all’osservare che ivi avanzandosi a rodere le falde della collina, non lascia piano di sorta, e che colà presso il viaggiatore incontra altro inciampo in una palude, dalle acque da esse sgorganti formata: in guisa che anche presentemente, s’ei non ama soggiacere all’incomodo di passare sulla sponda sinistra e dindi a poco restituirsi alla destra, guazzando la Ubrata nelle vicinanze di Nereto e riguazzandola a Ripoli; ogni passaggio di acqua ed ogni ostacolo evita col cominciare dal piano della Scentella a montare a Vallorina, col seguirne l’altura per un quarto di miglio, e col discendere di nuovo alla pianura dalla diruta Chiesa de’ Simone e Macario fin poco sopra le case Biancucci. Acclivio e declivio sono facili e dolci. E qualora si avesse a restaurar la Metella e si volesse risparmiare la spesa di due ponti, bisognerebbe o spingere in là la corrente e disseccar la palude, o divergere a Vallorina col sagrifizio non più che dalla metà di un miglio. A si fatto partito almeno i Romani appigliaronsi.

Or dal ben assodato sito della colonnetta indirizzando il guardo verso Roma, non vi è molto a squittinare sul luogo ove la strada in esame potuto avesse oltrepassare l’ultima barriera degli Appennini: imperocchè tantosto l’oculare ispezione altro adito non ci presenterà tranne la gola fra la montagna di Campli di Civitella, sufficientemente dilatato dalle acque di Salino, non lungi dai due villaggi di nome Macchia. Determinato questo secondo punto, ho per risoluto il problema; mentre interrogati gli abitanti di macchia quale via eglino e le convicine popolazioni tengano per andare a Roma, ci additano in prima la valle formata dal salino: e dov’essa manca, un mezzo comodo di cammino allinsù di pendìo sub-appennino della montagna Cavata, percorrendo il quale si lasciano a destra Leofara, il diruto S. Sisto, Pascellata e Ceraso: ed a sinistra S. Biagio, Serra, Ciarelli e Paranisi. Durante sì fatta non difficile salita, la strada venne condotta fra il Pretuzio ed il Piceno; appartenendo al pendenza meridionale del dorso che si va montando alal parrocchia di Acquaratola ed a Rocca S. mari: laddove la boreale fa parte di valle castellana. Giunta tra Ciarelli e Pascellata cominciava la via a penetrare nel Pretuzio, nell’attuale comune di Rocca S. Maria: e maggiormente vi s’internava dalla contrada Tassillo, battendolo di poi costantemente sino al nostro occidentale confine, alle vette cioè degli appennini. Da Tassillo si passa a ceppo di Cesa: dopo di che chi viaggia a cavallo è oggi costretto ad abbandonare la naturale direzione ed a fare il giro a mezzogiorno del monte Cavata, col danno di 4 o 5 miglia; giacchè lo arresterebbero indi a poco alcuni stretti e profondi burroni, conseguenze del tante volte deplorato insano disboscamento: di modo che se penserassi un giorno a ripristinar la Metella (chè il pubblico bene dee essere lo scopo delle filologiche ricerche) farà mestieri soggiogarli con ponti. I pedoni però sanno poterli sormontare, proseguono il cammino per bosco Martese, ove godono più miglia di buona strada, resa rotabile dalla mano dell’uomo ed in parte selciata (prima compruova della Metella e del suo corso): vantaggio tosto contrappesato dal disagio di sperare i cennati burroni, postergati i quali, s’innoltrano per la pianura della montagna Morricana, e per la contrada Cavallo. Qui l’osservatore anche più grossolano resta colpito allo scorgere la via incassati in ambedue i lati da grosse pietre, ordinate ad impedire le facili cadute alle sottoposte rupi (seconda e più luminosa compruova di Romana strada). Dal cavallo si va alla sommità degli Appennini, ma alla meno aspra, chiamata Guado di Annibale, tra Pizzo di Sivo, che si lascia verso il Piceno, e Pizzo di Moscio che si lascia a manca verso il Pretuzio. Avvegnachè ivi questo finisse, ed ivi oggi finisca la provincia, non dobbiamo arrestarci; essendo del nostro interesse conoscere l’intera traccia della Metella. Avanti di declinare al secondo ulteriore Apruzzo, conviene fare attenzione al nome Maceria della morte di una contrada alquanto a d4estra del Guado di Annibale: delle quali due denominazioni seppe trarre profitto il sig. Felice Martelli socio dell’Istituto di corrispondenza archeologica (noto per la dotta sua opera sulle Antichità Sicole) nella Dissertazione istoriografica sull’itinerario di Annibale. Colla scorta di T. Livio sostenne che Annibale, in seguito della battaglia del Trasimeno e dopo aver foraggiato gli agri Pretuziano ed Atriano, passò a devastare progressivamente i Marsi, i Peligni, i Marrucini e gli Appuli: e che perciò la marcia di lui fu per la via di Valle Castellana, che scende all’Amatrice per Amiterno, Saxia ove furono trovate le ossa quasi pietrificate di smisurato elefante (della specie Africana, a sentimento dei naturalisti, che le hanno esaminate presso il Marchese Dragonetti, il quale le conserva) Corbione (Corvaro) ed Alba nei Marsi : donde il vittorioso Cartaginese potè seguire l’andamento della Valeria, nel trasferirsi a devastare successivamente Peligni, Marrucini, Arpi, Lucera ecc. Ma non più di una marcia di desolazione, e si torni piuttosto al nostro pacifico viaggio. Dall’altezza degli Appennini discendesi per la Solagna per la Pacina nei quali due luoghi si offre la terza permanente compruova della Metella, dando all’occhio una zona, in cui le erbe crescono più rigogliose e verdeggianti, da farla nella state distinguere a qualche distanza. I montanari non hanno saputo meglio spiegare il fenomeno che coll’immaginare di essere colà transitata in carrozza la Fata (tra il volgo le Fate sono enti benefici) ed appellano quella zona carriera della fata Sibilla. In realtà è dessa il fondo dell’antica strada, il quale abbandonato per secoli al riposo ed avendo per secoli accolto, materie ingrassanti, ha una forza vegetativa superiore a quella delle terre laterali. La carriera della Fata Sibilla frattanto ci dimostra che le antiche vie passavano, ad un di presso, per dove passano le odierne, in linea però meno obliqua. In effetti la zona confondesi talvolta colla strada presentemente battuta, ma per lo più cammina al sud di questa, in linea più breve, senza essere obbligata a descrivere l’angolo al nord, che ora descriver si dee per guazzare l’ingigantito fosso della Solagna. Alle radici della Pacìna scorre altro fosso, concorrente esso pure a tributare acqua al nascente faggi, al cui sbocco s’incontrano successivamente i villaggi Capricchia e Ritrosi, e quindi il fiume Tronto: ove reca piacere l’imbattersi in un pilastro avanzo di vetusto ponte, quarta compruova di Romana strada. Senza comodo di ponte usciti dall’alveo zeppo di sassi e di ciottoli, giunti siamo alle pianure di Amatrice ed alla città di questo nome. Qui abbia termine l’ideale viaggio, imperciocchè aperto e visibile è l’adito alla vicina Salaria, sia a Torrita, sia più al mezzodì ad altro punto meno Introdoco divergente. E poi l’Intervallo da Introdoco a Vallorina può molto ben valutarsi di 56 miglia Romane (per la vecchia strada però, non per quella di oggidì) si ha la consolazione di conchiudere che la distanza da Roma a Vallorina era appunto di 119 miglia.

Quando non avevasi affatto notizia della Via Metella, attribuì come ognuno attribuiva, ai Frati del Cavallaro l’apertura della strada, manifestamente opera del’uomo, attraverso il bosco Martese fino alla pianura della montagna Morricana: ed ascrissi a misura di difesa del re Manfredi la fortificazione del castello del Re Manfrino nella gola fra la montagna di Campli e la montagna di Civitella. Mi è grato adesso rettificar la prima asserzione, e meglio dichiarar la seconda. I frati per la strada (dal convento alla Morricana di loro proprietà) profittarono della Metella, e molto verisimilmente ai loro ai loro restauri si dee che questa ivi più che altrove siasi conservata. Manfredi, dissi, avrebbe dato l’ordine di fortificare il castello, che da lui ha presa l’alterata appellazione: ma nel breve tempo entro il quale rimase incerto della via che terrebbero le forze di Urbano IV e di Carlo di Angiò, non gli sarebbe stato possibile ereggerlo tutto dalle fondamenta, principiando dal tagliare le calcaree pietre, che per circa la metà dell’area ne compongono i massicci muri, e le spugne dei consegnati ancor tengono alcuni pezzi di volte. Anche adesso del vecchio Forte restano grandiosi avanzi: e in miglior stato esser dovea nel 1263 allorchè, designato punto di ritirata e di difesa, il minacciato Re avrebbe dato ordine di riattarlo e ampliarlo. Il sig. Ermenegildo Januarj di Pascellata, membro della società economica, da me inviato ad esaminare le reliquie del castello del Re Manfrino mi ha riferito esse patente che il fabbricato appartenga a due epoche diverse: che la parte settentrionale sia, a non dubitarne, di Romana costruzione: non così la meridionale nelle cui meno antiche e meno sode muraglie si ravvisano materiali e rottami ad anteriori edifizj. Nella prima, che fu un vero sebben piccolo castro, tuttavia si discerne la bocca o di cisterna o di pozzo, ora affatto rincalzato dalle macerie: e nelle opere posteriormente aggiunte è a rimarcarsi una torre nell’angolo sud-est, che nel piano difensivo da Manfredi ideato stato sarebbe il più esposto, ed il primo ad esser dai nemici investito: piano però andato a vuoto, per aver l’Angioino scelta ad invadere il regno nel 1266 la via di S. Germano. È il sig. Januarj di avviso che l’erezione del primitivo Castro in quel sito, dominato da due ripidi e boscosi monti, veniva ai Romani imperato non solo dal bisogno di proteggere la strada Metella, ma dalla necessità altresì di fornire una stazione ai corpi militari, i quali avrebbero dovuto percorrerla: e che da Scaptia (le cui rovine sussistono nella contrada S. Valentino, appo le ville S. Lorenzo e S. Flaviano, a cinque miglia da Amatrice) fino al castello non conoscendosi verun antico paese abitato; sia ragionevole il supporre che i soldati prendessero riposo circa la metà della tappa, allettati dalla freschezza delle acque e dall’ombra degli alberi, nel bosco indi appellato Martese da Marte sedente.

Plausibili e sensate sono le riflessioni del mio solerte ed erudito amico. Noi però separando le congetture dalle verità certe, ci contenteremo di annoverare tra le seconde l’esserci appartenuta altra Romana strada, alla cui scoperta (volentieri ripeto) l’amichevole critica del ch. Borghesi mi ha somministrata occasione ed incentivo: e di sempre più ravvisare che non solo per mire d’industria, di commercio e dell’abbondanza dei viveri nella non lontana dominante, ma per viste eziando politiche e strategiche, in niun altra parte d’Italia i Romani aprirono tante vi, quante nei paesi attualmente componenti le tre province di Apruzzo. Per ciò che riguarda la Metella, essendosi già descritto il suo corso fino alla suaccennata gola: solamente mi resta ad indicarlo da quel sito fino al punto in cui ricongiungevasi alla Salaria sul littorale. L’osservazione che il Romano ingegnere nella superiore Metella costantemente antepose i terreni favoriti dal sole ai boreali, e l’essere il protettore ed ospitate castro piantato al di là del Salino, m’inducono a credere che discendendosi dal sub-appennino pendìo e penetrandosi alla valle del Salino, il cammino fosse di là dal fiume, quasi radendolo e che si protraesse sotto Ripa di Civitella e ad ostro del Passo fino alla pianura di Faraone: pel quale tratto la via sarebbesi turata entro la pertica di Ascoli. Dal così giudicare non mi rimuove l’aspe3tto né del lacero fianco del monte di Civitella, né dei perpendicolari dirupi del Salino tra Passo e Faraone: prodotti delle meteore, degli scoscendimenti, delle alluvioni e dei guasti degli intersecanti torrenti, per diciannove secoli. Da che pervenuti siamo alla bella pianura, la quale ormai sempre naturalmente rotabile si stende in sino al mare: e da che ci troviamo, per così dire, al prospetto di Vallorina; cessa ogni dubbio di avere a smarrire il corso della Metella, ricalcata dall’odierna Salara. (Ricordiamoci che le nostre popolazioni chiamano Salare tutte le strade che imboccano alla consolare del medesimo nome, e per cui elle avevano sale). Rimaneva nel Piceno in sino a tanto che traversava il territorio di Faraone ed una parte di quello di S. Egidio. Dalla linea longitudinale di Fonte a Salei fino a che si toccano le adiacenze di Carrufo, diveniva di bel nuovo per corto spazio ai due popoli promiscua. Rientrata però nella nostra Regione, più non ne usciva: ma abbandonando il vecchio Carrufo (sopra la ripa di Salino) e le colline di S. Omero a destra, il nuovo Carrufo e S. Maria a Vico a sinistra, perveniva alla Scentella. Qui per la doppia surriferita cagione vedevasi obbligata a divertire per l’eminenza di Vallorina, dalla quale tosto sbrigatasi, tornava a prendere la riva dritta della Ubrata, da cui nessun altro intoppo la respingeva fintantoché alla Salaria riannoda vasi al nord di Tortoreto. Ho notato che nel territorio di Tortoreto, specialmente lungo il corso occidentale della pristina consolare, si scorgano vestigi di varj paesi. Considerevole segnatamente appariscono in un rialto, al nord del punto ove la Metella si perde nella Salaria. Due nobili strade la prossimità di un fiume d del mare erano troppo ponderosi vantaggi per non attirare abitatori a quella situazione presentemente appellata Porcina. Da un Porcio?

Salino, che dalla Fonte a Salei comincia a volgere la corrente al nord-est, ancor più ve la rivolge da Carrufo sino all’estremità del tenimento della penna di Campli, donde ripiglia l’andamento primiero: formando bacino di colline di Bellante e Montone da un canto, di S. Omero e Tortoreto dall’altro. Tale bacino fornir dovea, come oggi fornisce, opportunità di un ambito municipale alle popolazioni di in entrambe le gronde. L’attuale sentiero e le località indicano che sino all’ultimo punto del territorio di Poggio Morello il tramite sulla riva destra, in prosieguo sulla sinistra per castrum Salini e che imboccasse alla Salaria a settentrione della primitiva foce dell’indomito fiume. La desrizione della proprietà del monastero di S. Lorenzo in un documento della proprietà del monastero di S. Lorenzo in un documento de 1023: a capite viam salarium, a pede flumen qui dicitur Salinus concerne il primo tratto: ed il residuo di antica strada rimarcato della pag. 203 appartiene al secondo. Anche Torano, Nereto, Galliano e gli altri paesi della pertica Truentina aver vollero diretta e propria comunicazione colla consolare, per la volta di Gabiano e del diruto Montorio-amare, senza necessità di passar mai la Ubrata: ed a questa via municipale è identica la strada salara ricordata in un monumento di S. Maria di Mejulano. Sono pochi anni che la profondazione e i guasti di Rio Moro hanno vietato ai carri di servirsene.

Fin qui delle strade. Ma perché la Metella ha intima connessione col settentrionale confine del primigenio Pretuzio, da quel lato più angusto dell’Aprutio o della Contea Aprutiense de’ bassi tempi, mi si permetta di aggiunger poche parole, onde finalmente resti determinata una linea finora involta tra le oscurità. Essa primieramente, del Guado di Annibale fino alle sorgenti di Salino, era quella medesima che oggi separa le parrocchie di Roca S: Maria e la quadruplice di Acquaratola spettanti al Pretuzio, dalle parrocchie di Valle Castellana comprese nel Piceno. Salino dal suo nascere, al di spora di entrambi i villaggi di nome Macchia, diveniva in prosieguo equo ripartitore, per essersi frapposto quasi ad eguale distanza tra i due capi-luogo Interamnia ed Ascoli. Arrivato però alla Fonte a Salei nella ripa cui sovrasta la pianura di S. Egidio, cambia all’improvviso direzione fin là tenuto dal libeccio a greco, e comincia a piegare a sirocco. Se dopo tale divergimento Salino avesse pur dovuto servire di demarcazione, avrebbe ristretto di troppo l’agro Pretuziano, ed i vasti tenimenti di S. Omero e Tortoreto stati ne sarebbero esclusi. Quindi come se pensato si fosse a riparare alla capricciosa defezione del divisore, la parte inferiore della pianura si S. Egidio rimase spartita fra i Pretuziani ed i Piceni, e la Metella venne condotta tra gli uni e gli altri. È perciò che la Salara ivi lascia a dritta la parrocchia di Ponzano diocesi Aprutina, ed a manca la parrocchia di S. Egidio diocesi Ascolana (dopo Sisto V. di Montalto). Durava poco la Metella a nuovamente prescrivere termine ai due popoli; mentre la frontiera occidentale delle pertinenze di Carrufo, parrocchia S. Omero e diocesi Aprutina, accogliendo in sé la rotabile strada ed abbracciando l’intera pianura del Salino alla Ubrata, slargava sino a questo secondo fiume il confine tra il Pretuzio e la pertica non più di Ascoli ma di Truento, fino al mare. Inesatte impertanto, comechè non erronee, si hanno a riguardare le autorità tanto di chi ha indicato il Salino, quanto di chi ha assegnata la Ubrata per limite del nostro agro. La precipua ragione su cui fondo il mio particolareggiato divisamento circa la disegnata linea terminale dall’apice degli Appennini alla foce della Ubrata è che a rintracciare le divisioni politiche sussistenti nei tempi del Romano impero non vi ha guida più sicura delle antiche circoscrizioni delle diocesi vescovili. Or in quanti documenti, alla questione relativi, ci siamo imbattuti, e nel libro censuale (Cap LXV) che per noi è una descrizione topografica, tutte le parrocchie e Chiese erette di qua dalla fissata linea vengono descritte nella diocesi Aprutina: e niuna vi si incontra delle parrocchie o Chiese situate al di là. Questa doppia riflessione non mi fa cedere al solletico di adottare le correzioni che il Bradimarte si è avvisato di fare ai testi comuni di Plinio, secondo le quali parrebbe che il confine nord-est dell’agro Pretuziano si potesse stendere solamente oltre la Ubrata, ma eziando oltre il Tronto. Dissimular non intendo che nel poliptico libro si leggono le parrocchie e le Chiese di Monsampolo e di Controguerra. In ordine a Monsampolo però ho ad osservare che certamente nel 1030, e verisimilmente fin dai cambiamenti nelle forme civili dai Longobardi operanti, le sue pertinenze facevano parte dell’Apruzzo. Il Franco signore territoriale, autore della prima e meschina incastellazione, era soggetto al conte Aprutino: e la ragione ecclesiastica del novello paese si adattò facilmente alla civile. Simile è la mia opinione riguardo a Controguerra, anch’esso moderno civile castello, e citato nell’ampliato dominio dell’Aprutino conte: e sulle cui adiacenze, avanti l’incastellamento ed il soggiacimento al vescovo Aprutino, vado sospettando che il preposto regolare di S. Benedetto ad Trivium, insieme coll’ingerenza parrocchiale, arrogata si avesse l’eminente, ad esempio dei circostanti preposti di S. Maria di Mejulano, di S. Martino a Nereto, e di S. Flaviano in Torano. Il numero delle nullius sorte nell’agro una volta Truentino mi fa creder che daddovero Truento ebbe sede vescovile, almeno fino a tutto il secolo V: e che rimasta quella diocesi eredità giacente, poterono i Monaci appropriarsi senza ostacolo la piena giurisdizione sopra i lor filiani. La confinazione poi del Regno collo stato Pontificio anche adesso vigente, a parer mio occasionata dai punti più o meno inoltrati a’ quali i Normanni institutori della siciliana monarchia eransi estesi e dove arrestaronsi lasciò intatti i rapporti meramente spirituali. Il divario, benché in sè stesso intralciatissimo fra la prisca e la nuova frontiera si distinguerà a colpo d’occhio nella Carta corografica del Pretuzio, colla quale ho voluto coronare le mie lunghe fatiche per l’amata natìa regione. Piuttosto che commettere l’incisione del rame in Napoli, o altrove l’ho fatta incidere in Teramo dal sig. Pietro Quintiliani giovanetto di buona speranza, allievo della nostra scuola di disegno; affinchè questa Storia, anche ne’ suoi accessorj ed in tutti gli aspetti sia opera ragionaria.