Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: "Vedi; qui in questo letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste mura!" Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: "Veggo abbondare i rivi di sangue." Poi girava le strade, in mutande171, stranamente avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.
Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: "Sì che ti daremo segnalata vittoria,"172 quando Ibrahim lanciossi nella mischia.
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