Appare l'alba, e si profilano da lontano i monti che fanno corona a Palermo; i delfini guizzano intorno al vascello, galleggia l'argonauta nella candida conchiglia fra le schiere di salpe collegate trasparentissime, e le migliaia di meduse, spenta la notturna luce, alternano i moti del corpo, silenti campanelle del mare.
Nè meno bella è la vista della terra. Chi da Monreale scende verso Palermo ha sotto gli occhi un paesaggio il più ameno e il più dilettevole che si possa riscontrare.
Lungo il monte, nel fianco del quale è scavata la via, si slanciano, di fra le roccie dai robusti cespiti gli steli diritti degli aloe, con quelle ramificazioni ad angolo retto che fanno mostra sì vaga dei fiori vivacissimi; fiori e steli della fuggevole vita, maturati per molti anni nel seno della pianta, venuti su ad un tratto a ricevere per pochi giorni le carezze dell'aria e del sole.
Dall'altra parte verdeggia in vaghissimo anfiteatro l'incomparabile valle, la Conca d'oro, fragrante degli effluvi degli aranci che in fitti boschetti mostran le cime come le erbe addensate d'un prato. Di fronte la città, coi suoi monumenti, le cupole, gli antichi edifizi, gli ampi suburbii, le belle ville, i giardini fioriti, la placida marina ove si specchia il sole in limpidissima atmosfera. Lo spettacolo è meraviglioso!
Ma all'Italiano che nato in altra provincia è venuto a visitare questa parte della propria patria, diversi pensieri si aggirano per la mente.
I siciliani diedero prova di virile costanza nei loro sforzi per acquistare l'indipendenza, e tutti i gradi della società nell'isola pagarono il loro grande tributo all'impresa.
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