Così informava un amico, che ogni ora "gli pareva mill'anni di scappar via da quella porca città, dove non sapeva se gli uomini erano più asini o birbanti". "Ora il solo documento" osserva il Patrizi, "non fantastico, non leggendario, delle ingiurie patite in(91) quel tempo da Giacomo, è un sonetto, che, salutando il ritorno di lui in patria, lo diceva "Genio sublime". Nell'autunno del 1829 egli flagella i Recanatesi nelle "Ricordanze....", e nell'ottobre dell'anno avanti; egli avea ricevuto in casa l'omaggio di vecchi e modesti rappresentanti della coltura paesana; e per la via, le riverenze in massa dei giovanetti studiosi; nel marzo del 1831, con unanime acclamazione, veniva prescelto a Deputato del Distretto per l'Assemblea Nazionale, "atteso il corredo dei tanti lumi e le già sperimentate prove di eroismo". "Nè, chi ben rifletta, segue Patrizi, la cosa poteva andare diversamente, anche per la soggezione e la simpatia che doveva ispirare il figlio del conte Monaldo-Leopardi-Confalonieri (titolare delle più alte pubbliche cariche....)" in una piccola città, dove, anche ora, "i più vengono al mondo, starei per dire, coll'istinto della sudditanza e della paura di fronte alle Autorità e ai ricchi di vecchio e recente sangue".
Ed aggiunge che "paure di persecuzione da parte dei concittadini inquietarono anche Carlo e Paolina; e qualche altro della famiglia non fu salvo da quel segno di nervoso disquilibrio; Leopardi temeva, a Napoli, di aver che fare a ogni passo coi ladri; ed una volta (per una "strana allucinazione" dice il Ranieri) sostenne di essere stato derubato.
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