Tra tutti questi che ridevano era ancora chi ha scritto questo discorso, e anch’ei rideva. E chi non doveva ridere di così manifesta e sciocca e sfacciata prosunzione? E come, se il riso non si poteva tenere? che egli mutata la voce in canto, come a lui pareva, cantava la nenia a Pitagora? E vedendo un asino trattar la cetra, come dice il proverbio, scoppia in una grassa risata il mio poeta:(52) quei si volge, e lo guata. Ed ecco dichiarata la guerra tra loro. Indi a poco tempo era il principio dell’anno, e proprio il terzo giorno del mese, nel quale i Romani, secondo loro costume antico, fanno le preghiere per tutto l’anno e i sacrifizi prescritti dal loro re Numa, e credono che gli Dei specialmente in quel giorno esaudiscono chi li prega. In cotal festa e solennità, quei che in Olimpia si fece quella risata pel supposito Pitagora, vedendo avvicinare quell’abbietto e vanitoso recitatore de’ discorsi altrui, e conoscendone bene i costumi, e la vita sozza e sfacciata, e i fatti che se ne contavano, e le vergogne in cui l’avevano colto, voltosi ad uno degli amici: Scansiamo questa vista di malagurio, disse; la presenza di costui ci renderebbe infausto un giorno bellissimo. Udendo il sofista questa parola infausto, come se la fosse forestiera e nuova ai Greci, si messe a ridere credendo di vendicarsi di quella tale risata, e andava dicendo a tutti: che cos’è quest’infausto? è un frutto? un’erba? un arnese? forse è una cosa da mangiare o da bere quest’infausto? Io non l’ho udito mai, e non intendo che voglia dire.
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