E a le genti distratte da me vociferai: io sono il Dante novello: "egli l'uno, io il due, egli radice, io la vetta, egli il principio, io la fine". E mi transustanziai...: Dante sono! Dante sono.
Guerino, La Tomba di Dantunzio.
Eravamo in pieno trionfo d'annunziano: l'entusiasmo per lui era traboccato in sulla piazza35: "mentre le aristocrazie intellettuali abbandonavano sazie l'artista indebolito, il pubblico, che aveva deriso ed oltraggiato anche le Laudi, era venuto a lui unanime": quel pubblico però che ci governa e si addestra conGuerre, Sgualdrine, Spettacoli e Galere;
proprio la nostra plebe vestita di seta e di fustagno, ingiojellata di brillanti e di ulceri sifilitiche, facilona e sbraitona, che forma il ventre d'Italia, donde si evacuano i proprii legislatori, il proprio Governo, la coda gajetta e degna della monarchia. Su questa pusillanimità di vita e di giudizio, di critica e di compiacimento, D'Annunzio aveva vibrato la propria indignazione dopo la clamorosa caduta di Più che l'amore; buon giuoco istrionesco impune e facile su terga chine e spianate. Indi, si era fatto inalzare in sulli scudi di latta e di carta pesta dei Clipeati di La Nave; e furono in fatti i macellaretti, i fruttivendoli di Trastevere, li equivochi Ciceroni di Piazza Navona e di Piazza San Pietro, i vaghi modelli di nudo delli studii internazionali, i dubii efebi catamiti della capitale d'Italia e dell'orbe cattolico; sì, i Clipeati retti dal maestro di scena in turbolento corpo di ballo promiscuo, i suoi legionarii che lo inalzarono, dallo spolverio della luce elettrica di sul pulverolento palcoscenico, tra i posticci, le quinte ed i trucchi del dietro-scena, al maggior onore della lirica nostrana.
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