XLVIII. Mentre le sopra narrate cose accadevano in Devonshire, l'agitazione in Londra era grandissima. Il Manifesto del Principe, nonostanti tutte le cautele del Governo, correva per le mani di ciascuno. Il dì sesto di novembre, Giacomo, ancora ignorando in qual parte della costa gl'invasori erano sbarcati, chiamò alle sue stanze il Primate ed altri tre Vescovi, cioè Compton di Londra, White di Peterborough, e Sprat di Rochester. Il Re cortesemente si stette ad ascoltare i prelati che facevano fervide proteste di lealtà, e li assicurò che non aveva di loro il più lieve sospetto. "Ma dov'è" soggiunse poi "lo scritto che mi dovevate portare?" - "Sire," rispose Sancroft "non abbiamo nessuno scritto da darvi. Non abbiamo mestieri scolparci al cospetto del mondo. Non è cosa nuova per noi il patire insulti e calunnie. La nostra coscienza ci assolve: la Maestà Vostra ci assolve: e di ciò siamo satisfatti." - "Bene" disse il Re. "Ma una dichiarazione fatta da voi mi è necessaria." E mostrando loro un esemplare del Manifesto del Principe, "Ecco" soggiunse, "ecco in che modo voi siete qui rammentati." - "Sire," rispose uno de' Vescovi, "nè anche una persona in cinquecento reputa genuino cotesto documento." - "No!" esclamò fieramente il Re: "eppure questi cinquecento condurranno il Principe d'Orange a segarmi la gola." - "Dio nol voglia," esclamarono ad una voce i prelati. Ma Giacomo che non fu mai di lucido intendimento, adesso lo aveva onninamente turbato. Una delle peculiarità del suo carattere consisteva in questo, che quando la sua opinione non veniva adottata, ei credeva che si dubitasse della sua veracità. "Questo scritto non è genuino!
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