Largo di cuore, come di fortuna, la di lui tavola era sempre aperta ai buoni amici: e anche coloro che si limitavano alla ricorrenza ebdomadaria, affrettavano quel giorno col desiderio, perchè si andava proprio a passare alcune ore nella più schietta ed esilarante allegria.
Alla mattina del giorno di S. Carlo, intanto che aspettava l’ora di mettermi in viaggio, mi salta in mente l’idea di tirar giù qualche sestina da leggere a tavola, tanto per ajutare a far baccano. E lo feci proprio di mio capriccio, io, che a questi lacci, per quanto seccato e ristuccato, non mi lasciai cogliere in vita mia più di due o tre volte. Verso la fine del pranzo, che fu spaventevolmente numeroso, e servito a vini eroici (circostanze ottime per ammirare la poesia pessima), si fa alto silenzio, e mi metto a declamare. Volete sentirli quei poveri versi? se no, saltateli, che l’esempio cammina istessamente: e chi non li capisse, stia certo che non vale la pena di farseli spiegare. Per altro, è un peccato che dopo Carlo Porta tutta Italia non intenda il vernacolo di Meneghino. I dotti inglesi studiano l’italiano a posta per gustare il Dante: e i colti italiani non dovrebbero prender cognizione del più bonariamente malizioso e comico e bisbetico tra i loro dialetti? Dunque, ecco il brindisi tale e quale.
El dì de S. Carlo a Cerian
Quand pensi che ona volta al dì d’incœuL’era per mi ’l pù brutt del taccoin
Per vess la ritirada di fiœuChe van a taccà lit cont el latin,
Me casca i brasc, me se rescìa la pell,
Me senti anmò tutt limen e sardell.
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