Ecco perchè la contessa ebbe diritto in quella notte esagitata di non consumare nel sonno nemmeno una di quelle ore statele concesse, e di lasciar vagare liberissimamente il pensiero per campi che non aveva mai nè percorsi, nè sospettati in addietro, ed anche di gettare, durante la veglia rischiarata dalla notturna e opaca lampada, qualche occhiata sulla faccia del conte addormentato. Vi sono dei casi in cui tanto più si guarda un oggetto quanto più dispiace; questo fenomeno strano è forse fratello di quell'altro per cui chi soffre il mal di denti, ritorna spesso colla mano quasi ad esacerbare la parte addolorata. Ella dunque guardò e riguardò e ritornò a guardare il conte; e che frutto ne ricavasse, ognuno lo può pensare. Fu per quella vista e, per quell'esame ripetuto che la prima gioja solenne, sopracuta, completa, quell'oro a mille, senza lega, non potendo snaturarsi affatto, s'accartocciò, si raggrinzì; fece come il sole, che non si oscura, ma le nubi temporalesche non lo lasciano più vedere. Ed infatti sul sereno tutto raggiante del suo pensiero si alzò una fitta nube d'affanno e di spavento. La contessina provò quello che tutte le anime calde, appassionate, ma generose ed oneste, provano ogni, qualvolta sono assalite da uno di quegli amori per cui i mariti e le mogli possono gettare e gettarsi dalla finestra; per cui il confessore non suol dare l'assoluzione alle sue divote; per cui gl'interessati possono adoperare i fulmini delle leggi: gli uomini e le donne, i quali non hanno altro pensiero che quello della digestione, adoperano parole d'ironia e di scherno; e i bigotti inquisitori avventano maledizioni e saette; di quegli amori per cui non sente pietà che qualche uomo il quale tenga un piede nella filosofia e l'altro nel bel mondo, ed abbia potuto essere a un tempo e don Giovanni e fra Cristofaro.
| |
Giovanni Cristofaro
|