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      Cammino. La via è acquitrinosa. Non so della città che dorme o luccica o impazza dietro le mie spalle. Non so del cielo. Cammino nella fedele oscurità, svoltando perché il viottolo svolta - e sempre mi pare che stia per finire e io mi trovi chiuso dove non si può piú andare avanti. Cammino. La smania dell'incerto, l'ansia dei muscoli hanno ingoiato il dolore. Penso semplicemente di metter bene il piede per non sdrucciolare. Ah l'oblio, l'oblio in questo andare anelante, col petto proteso in avanti per sbilanciare in su tutto lo stanco corpo! Il sangue mi batte rotto nelle tempie. Piú presto! E d'improvviso, nell'orecchia, qui sul capo, l'urlo vigliacco d'un cane.
      Un urlo rauco, furibondo, quasi disperato. Un urlo di vendetta per le inutili notti di veglia. L'anima si riscote e trema. Che cosa faccio qui a quest'ora? All'urlo risponde il cane vicino che non aveva sentito il mio passo silenzioso, e un altro dirimpetto, l'altro piú in su, giovane, allegramente. È dato l'allarme. E subito tutto l'anfiteatro di colli è sveglio, e la notte ulula e ringhia contro questo mio povero passo che evitava lo stelo secco per non svegliare, per passare via, andar solo e ignorato. Una finestra s'apre cautamente, io m'allontano impaurito come colto sul fatto.
      Tutto è di nuovo presente. Torna il dolore e l'angoscia. Ho paura. C'è troppe cose ignote, gravide d'oscurità, intorno a me. Sono veramente in un bosco? Non fui mai qui. Non trovo nulla d'amico. Tocco i tronchi umidi e gommosi - è un frassino, certo, questa scorza liscia come pelle.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103