— Natan, credo che se fossi in te la penserei allo stesso modo. Va’, tu sei libero! —
Fece stendere immediatamente l’atto d’emancipazione: consegnò al quacquero una somma da spendersi per i primi bisogni dello schiavo, e lasciò a quest’ultimo una lettera di consigli, piena di affetto e di bontà. L’autrice ebbe per alcun tempo questa lettera nelle mani.
Essa spera di aver reso giustizia alla nobiltà di sentimenti, all’animo generoso e pio che spesso dimostrano gli abitanti del Sud. Tali ottime qualità ci vietano di disperare interamente della specie umana. Ma, di grazia, essa lo chiede a ognuno che conosca il mondo, tali caratteri s’incontrano di frequente? Per molti anni l’autrice si astenne da ogni lettura o discorso sulla schiavitù, considerando questo soggetto come troppo doloroso a discutersi, e sperando che il progresso dei lumi e della civiltà ne avrebbe certamente affrettato l’abolizione.
Ma dopo l’atto legislativo del 1850, allorché essa vide, con grande stupore e costernazione, un popolo cristiano e civile inculcare la denunzia degli schiavi fuggiti come un dovere imposto a tutti i buoni cittadini; quando essa intese che uomini probi, compassionevoli e stimabili, negli Stati liberi del Nord, discutevano e deliberavano quali fossero i doveri dell’uomo in siffatte circostanze, pensò:
«Questi uomini, questi bianchi, questi cristiani non sanno che cosa sia la schiavitù; se lo sapessero, non potrebbe mai esser questo un argomento di discussione.»
Allora le nacque il desiderio di rappresentarla sotto una forma drammatica.
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