Il suo Regno d'Italia era stato un governo ben più umano e nazionale del dominio austriaco e della forca borbonica. L'odio ai francesi, che la musa di Alfieri aveva bandito alla gioventù, dileguava a poco a poco sotto la cupa compressione della nuova dominazione straniera. Niccolini, che in altri tempi con un alto grido di sdegno aveva atteso sulla via di Brenno il figlio d'Italia discendente dalle Alpi, e non aveva trovato che sarcasmo per l'iscrizione della medaglia commemorativa francese l'Italie délivrée à Marengo, adesso intonava canti di disprezzo pei nani che ballavano sulla tomba del gigante. Il cordoglio umano pel trapasso di una grandezza unica suggerì a Manzoni l'espressione travolgente in quella poderosa ode, che con una strappata geniale leva via la sostanza dalle maraviglie dell'impero: E il lampo dei manipoli E l'onda dei cavalli: e perciò essa sola vale tutte le altre opere dell'epopea napoleonica. Il giovine Santarosa nei suoi primi scritti aveva maledetto il tiranno, che aveva arrossato d'italo sangue i piani nevosi della Russia; ma da uomo maturo si riconciliò coi francesi e i napoleonidi. E come lui Massimo d'Azeglio, il figlio dell'emigrato piemontese. Nella bella lettera di conforto che Pio VII scrisse alla madre di Napoleone, non parla soltanto l'uomo amabile, né soltanto il papa la cui Chiesa andava debitrice all'imperatore del ripristinamento, ma anche l'italiano. I carbonari, dianzi nemici di Murat, dopo si erano intesi con gli amici di Napoleone. Il bonapartismo viveva inestirpabile nel cuore degli ufficiali della vecchia armata italiana.
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