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ANNA MALVEGGI MUCCIOLI, Primo Riccitelli.
In "Attraverso l'Abruzzo", 15 settembre-15 ottobre 1954, pp. 6 e 16.


Il maestro Primo Riccitelli nacque a Cugnoli di Campli il 10 agosto 1880 e morì nel Marzo del 1941. Giovanissimo entrò al Conservatorio "G. Rossini" di Pesaro e fu discepolo di Pietro Mascagni. A 18 anni compose: "La Francesca di Rimini, la Nena e la Lory" che se non gli procurarono un successo immediato, valsero ad annoverarlo tra le più illustri promesse della gloria musicale abruzzese e italiana.
Il Maestro Mascagni, amava chiamarlo "Il Maschietto abruzzese" lo considerava un allievo prediletto e incoraggiava le sue ispirazioni e la sua nobile fatica; lo seguì con simpatia e interesse anche quando Primo Riccitelli si recò a Milano. Per conto dell'Ed. Sonzogno compose "Madonnetta e Maria sul Monte" e la via della gloria su segnata da privazioni e sacrifici.
Le nuove opere ebbero un discreto successo ma i sogni del giovane maestro, erano asssai più grandiosi e inquieto, deluso, sconfortato, indebitato, si rifugiò a Giulianova, dove in giorni di bonaccia, riposato nello spirito e nel cervello, compose: "I Compagnacci".
L'opera migliorò la sua posizione finanziaria e gli procurò grandi soddisfazioni perché fu benevolmente discussa e grandemente apprezzata, tanto che si disse che un pari successo l'aveva meritato Mascagni per la sua "Cavalleria Rusticana".
In seguito con "Madonna Oretta" si affermò definitivamente astro di prima grandezza del firmamento musicale.
L'opera fu rappresentata con grande successo al Costanzi e alla Scala di Milano, varcò pure l'oceano per giungere al Metropolitan di New York, al Colon di Buenos Aires e al Municipale di Rio de Janeiro.
Poi, il Maestro Riccitelli ebbe un periodo di stasi, forse dovuto all'eccesso di lavoro e alle grandi emozioni non scevre di pensieri gravi e di contrasti incontenibili nel suo grande cuore di musicista e di fanciullo. Si sentì stanco e stordito, poi si riscosse, si riprese, si pose di nuovo all'opera per esaltare la terra e il mare d'Abruzzo.
Su libretto di Giuseppe Maria Viti si accinse a comporre: "Il Capitan Fracassa" ma l'opera, che forse doveva dargli la celebrità sognata e la tranquillità economica, rimase incompiuta perché la morte lo colse.
Il ricordo dell'autore di tante pagine musicali, interpretate da artisti di valore è vivo in quanti lo conobbero nella sua umanità: con i suoi difetti, e le sue debolezze e il suo orgoglio, con le sue abitudini semplici, a volte primitive e a volte con le sue esigenze di uomo superiore, dotato d'intelligenza, di sentimenti squisiti e fieri.
La sua evoluzione musicale, non scevra di soste, di scoraggiamento, non ebbe mai un ristagno vero e proprio, perché anche quando non componeva musica per concretare un'opera, sentiva nel suo intimo e meraviglioso mondo ritmi, motivi, canzoni, reminescenze d'ineffabili armonie e quando si accingeva a tradurli, superando le crisi dello spirito, i divieti materiali e le mestizie, si sentiva signore delle armonie, tra folle anonime plaudenti e luminosi scenari.
Le sue ore grigie, erano un po' simili a quelle degli artisti di tutti i secoli, dovuti agli ostacoli, agli sgomenti di chi è costretto, non essendo ricco, ad edificare spesso sulla scia dei sogni e sulle irragiungibili costellazioni della propria vita interiore, piena d'inquietitudini, di lirismo, di progetti, di necessità umane.
Tutto contribuiva a fare di lui il nomade intellettuale, il musicista impulsivo trasandato e trasognato che al pianoforte, nelle ore colme di poesia, nel placido sciabordare delle onde, improvvisava musica che rimaneva sospesa nell'aria come un canto di paradiso, che egli spesso dimenticava o lasciava incompleta, mai pago e mai deluso.
Spesso, quando la melanconia lo invadeva, diventava un po' diffidente e scontroso, allora si appartava, spariva per più giorni dalla circolazione, poi capiva che non poteva comprare la felicità per la vittoria completa dei suoi ideali, del suo orgoglio e della sua umiltà inviolata e allora, tentava la via della serenità come un fanciullo, si studiava di combattere tempo e ostacoli, di fronteggiare con indifferenza e arguzia gli assilli giornalieri, cercava di difendere la sua salute, di considerare tutti buoni amici, aderenti al suo mondo, tutti capaci di comprenderlo e assisterlo, di rimanergli fedeli al momento della prova, gioiendo delle sue vittorie e soffrendo per le sue sconfitte.
Per vivere, per produrre, per servire il sacrificio e affrontare la critica, aveva bisogno di serena fiducia, di ore contemplative.
Le febbrili ansie, venivano dopo, quando era sicuro di aver maturata l'idea, di aver scolpito il concetto.
Era frugale, semplice, quasi francescano, pur se amava le cose belle; oggetti d'arte e cose di pregio e uomini d'intelletto e di fede. Per la musica era esigente e studiava il modo di dare al suo stile musicale un'impronta di perfezione.
Spesso si fermava sotto l'ombra dei pini o vicino a un muretto, o dentro una barchetta dondolante riva riva o si sedeva sotto il pergolato a un tavolinetto rustico di una rivendita di vino e tracciava note e note in fretta, con ansia dimentico del mondo, sul primo pezzo di carta che gli capitava tra le mani irrequiete, spirituali.
In quelle ore feconde non ubbidiva che al suo istinto di musicista e il suo spirito in luce, somigliava a quello degli asceti e degli eroi.
Sembrava che egli potesse vivere con la subitanea energia creativa per sempre, senza pane senza vesti, solo per quelle note, che erano voli gorgheggi, sospiri, fremiti atti ad esprimere la gioia e il dolore, l'ansia e l'amore, il concetto della vita e la maestà della morte.
I suoi occhi miti somigliavano a quelli dei fanciulli e anche agli occhi degli arditi che mirano inaccessibili altezze decisi a tentare, con qualunque tempo, la scalata per raggiungere la vetta più alta e inviolata.
Spesso canticchiava in sordina i suoi motivi, e quelli prediletti, gli era cara l'enfasi degli ammiratori che gli stringevano la mano, che lo incitavano a portare a termine l'opera iniziata, che lo invitavano a brindare con un buon bicchiere di vino ai suoi successi. Anche nei giorni di popolarità, quando specialmente in Abruzzo, gl'intenditori di musica e gli amici ripetevano i motivi delle opere rappresentate con successo, e i giornali parlavano di lui, la sua modesta figura di uomo ingigantiva nella luce e nella sua arte pura.
Non cambiò abitudini, non disdegnò la compagnia degli operai, degli umili, neppure nel periodo più glorioso della sua affermazione, quando la radio trasmetteva le sue opere e i critici avevano per lui parole alte e lusinghiere e sembrava che il suo nome dovesse diventare addirittura immortale.
Costretto a vivere in città per lunghi mesi, a vestire di scuro, a portare il colletto duro, a frequentare locali di lusso e teatri, sempre applaudito e festeggiato, a sorridere, a discutere, a conversare, quando tornava a Giulianova, appariva un po' stanco e annoiato, un po' sbalordito e trasognato e allora, si rituffava nel bagno di luce solare, riprendeva le sue abitudini semplici e pacate e si vedeva passeggiare sotto l'ombra dei pini, passeggiare in riva al mare e accettare e cercare la compagnia degli umili.
Rientrato pianamente, nella sua solitaria dimora, come chi ha operato sotto l'effetto di un narcotico, si ritemprava nella gran pace azzurra e il demonio creativo lo ritentava, lo riprendeva... Ricominciava a scrivere note, note e note per preparare, altri eventi gioiosi al suo cuore, al suo intelletto e onorare così la sua terra d'Abruzzo, il suo mare.
Immancabilmente, quando era a Giulianova, dall'inizio della primavera fino al termine dell'anno scolastico, si fermava sotto le pinete per guardare gli alunni che i maestri con paziente e insistente fatica preparavano per il saggio ginnico.
E non era uno spettatore passivo.
Consigliava e suggeriva affinché i movimenti delle membra rispondessero esteticamente alle finalità educative.
Una volta, offrì il suo aiuto per l'allestimento di una recita scolastica musicale.
E il suo interessamento diventò fatica; tormentò i piccoli attori e i maestri perché nulla lo soddisfaceva e a furia di provare e di correggere buona parte dell'entusiasmo dei piccoli attori diventò stanchezza.
Forse, il Maestro, dimenticava che la prima donna e il tenore in due avevano vent'anni e che il complesso artistico era composto di alunni che non conoscevano una nota musicale e mai avevano veduto un teatro vero e proprio.
Finalmente giunse la sera della recita, si dava "La piccola Olandese" del Maestro Corona e Riccitelli scuoteva il capo, dopo il successo, per dire: "Poteva, doveva andare meglio. L'arte è arte e non va confusa con un raduno di gente che applaudisce".
La morte lo colse nel periodo del massimo fervore.
E se ne andò docile e modesto con la sua ansia e la sua indifferenza di vita, con la sua grandezza d'ideali e la sua saggezza altera e semplice, come se ne va il genio, il potente e il fanciullo...
Il patrimonio musicale che ha lasciato, non è nè indifferente e nè comune.
Armonie aderenti a quelle del suo grande Maestro Mascagni, improntate allo stile delicato e vigoroso, che la memoria richiama senza sforzo e il cuore esalta.
Ogni tanto, in verità troppo poco, si parla del Maestro Riccitelli, qualche giornalista abruzzese elogia ed esalta le sue opere ed esprime il rammarico perchè rimangono accantonate o incompiute.
Si dovrebbe fare tanto di più per onorare la memoria dello scomparso.
L'Abruzzo forte e gentile, ricco di cuori generosi e di belle menti, di personalità politiche, di amatori di arte e di artisti, di gente ricca, anche con sacrificio dovrebbe accendere e alimentare una lampada alla memoria di Primo Riccitelli, facendo riecheggiare nell'etere le musiche da lui composte che ebbero successo in Abruzzo, in Italia e nel mondo.
ANNA MALVEGGI MUCCIOLI