Il fato dell'Italia hoggi dipendedall'esser vera ò falsa rebellione
questa, ch'à calavresi Carlo imponee Sciarava, ch'el Regno el Rè n'offende.
E s'il Conte che regge ancor pretendeche lor finte ragion sian vere e buone
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più grave fia l'antevista ruina.
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Ahi cieca Italia nella tua rapina!
sin quando il senno tuo sopito langue?
s'io ben ti desiai, che t'ho fatt'io?"
Sarebbe poco ragionevole voler qui trovare una Musa felice e splendida, e lo stesso va detto per tante altre poesie di questa raccolta: il filosofo dovea sentirsi disposto a tutt'altro che a poetare; d'altronde poesie simili bastavano per que' rozzi ma generosi patriotti. Il 3° Sonetto, intitolato dall'autore "a sè stesso", può ritenersi bene al suo posto, valendo ad ispirare conforto e fiducia a' compagni suoi in un modo generale, e sempre promettendo la vendetta divina:
Spesso m'han combattuto, io dico anchora,
fin dalla giovanezza, ahi troppo spesso,
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ma la spada del ciel per me lavora".
Non così l'altro intitolato anche "a sè stesso", con la giunta dovuta a fra Pietro, e certamente errata, cioè "subito fu preso": esso venne pubblicato dall'Adami senza questa giunta, che forse potè essere suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel 2° verso, "il fiero stuol confondo"; ma tutte le circostanze, che accompagnano queste parole, le mostrano riferibili a' Giudici, Fiscale e contradittori intervenuti nelle confronte, sicchè il Sonetto risulta precisamente del tempo degli esami e confronte del Campanella, che aveano dovuto sembrargli tali da poterne menar vanto.
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