Spesso la perdita d'una battaglia significa conquista d'un progresso. Meno gloria e più libertà; tace il tamburo e prende la parola la ragione. Si giuoca a chi perde vince. Parliamo dunque freddamente di Waterloo, d'ambo le parti; restituiamo al caso quel che è casuale, e a Dio quel che è di Dio. Che cos'è Waterloo? Una vittoria? No: è un terno vinto dall'Europa e pagato dalla Francia.
Non valeva la spesa, a conti fatti, di mettervi un leone.
Waterloo, del resto, è lo scontro più strano che la storia ricordi. Napoleone e Wellington: non già due nemici, ma due contrarî. Mai Dio, che si compiace delle antitesi, ha creato un contrasto più avvincente, un confronto più straordinario: da un lato precisione, previsione, geometria, prudenza, ritirata garantita, riserve tenute da conto, un sangue freddo testardo, un metodo imperturbabile, la strategìa che trae profitto dal terreno, la tattica che equilibra i battaglioni, la carneficina tirata a squadre, la guerra regolata coll'orologio alla mano, nulla lasciato volontariamente al caso, il vecchio coraggio classico, assoluta correttezza; dall'altro intuizione, divinazione, stranezza militare, istinto sovrumano, l'occhiata fiammeggiante, qualcosa che guarda come l'aquila e colpisce come il fulmine, un'arte prodigiosa in una sdegnosa impulsività, tutti i misteri di un'anima profonda, la società fatta col destino, col fiume, colla pianura, col bosco e la collina, ammoniti ed in certo qual modo costretti ad ubbidire, il despota che si spinge fino a tiranneggiare il campo di battaglia, la fede nella propria stella congiunta alla scienza strategica, così da ingrandirla, ma da turbarla ad un tempo.
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