Prometeo. Parla tu primo, o Mercurio: fammi un’accusa gagliarda, e non tralasciar mezzo per difendere tuo padre. E te, o Vulcano, io prendo a mio giudice.
Vulcano. Giudice? altro! io sarò tuo accusatore. Tu mi rubasti il fuoco, e mi lasciasti fredda la fucina.
Prometeo. Bene: dividerete l’accusa: tu parlerai di questo rubamento: e Mercurio m’accuserà d’avere formati gli uomini, e male spartite le carni. Tutti e due siete valenti, e vi sta bene la lingua in bocca.
Vulcano. Mercurio parlerà anche per me: cose di tribunali non ne so io, di fucina sì, te ne direi quante ne vuoi: egli è oratore, e di queste cause ne ha avute per mano.
Prometeo. Non avrei mai creduto che Mercurio volesse parlar di furto, ed accusar me di ciò che è arte sua ancora. Ma se anche di questo, o figliuolo di Maia, vuoi incaricarti, comincia l’accusa.
Mercurio. Veramente, o Prometeo, ci vuole un lungo discorrere e un gran meditare su quello che tu hai fatto! Non basta esporre in due parole le colpe tue? Quando ti fu commesso lo spartir delle carni, serbasti il miglior boccone per te, ed ingannasti il tuo signore: formasti gli uomini, quando non ce n’era necessità: rubasti il fuoco a noi, e lo portasti a loro. Parmi, o caro mio, che non vuoi capirla, che dopo tutto questo, Giove t’ha usato clemenza assai. Se tu negassi di aver fatte queste cose, dovrei sciorinare una lunga diceria per convincerti reo, e chiarir tutto il vero, punto per punto: ma tu dici di avere spartite le carni a questo modo, di aver fatta la invenzione degli uomini, e di aver rubato il fuoco, io dunque ho finita l’accusa: se dicessi più, sarebbero inezie.
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