No xe po veroChe la poesia
Sempre sinonimoDe zero sia,
Come fra calcoliBassi e venali
D’acordo opinaCerti cotali
Che fa musina.(47)
L’altra matinaDando de naso
Cussì per casoNel mio vernacolo
Tesoro sconto,
Ò trovà in ponto(48)
Beli e trascritiCento e do brindisi
Fra i manoscriti.
E come ghoRegistro esato
De quando natoXe ognun dei brindisi,
De certo soChe in sta faragine
Apena doXe stai passivi,
E cento ativi.
Giuseppe Trevisan, la Boca da butiro dei Busoni, prendendo argomento da ciò, andava dicendo pubblicamente che per far cantare il Buratti ci voleva la gola di un pranzo. Era una sciocchezza, perchè il poeta, scapolo e ricco, avea bisogno di buona e lieta compagnia, e non di pranzi. Non valeva certo la pena di rispondere, tuttavia sembra lo facesse nei seguenti versi:
. . . . . . . . . . caéna al coloUn omo del mio tagio no se méte;
Scrivo per mio piacer, nè vendo a nolo,
Co no le vien dal cuor le barzelete.
Fama de leterato alto e profondoNo me seduse, e calcolo per gnente
Viver nei libri co no son più al mondo;
Chè la lode xe in fondoUna salsa gustosa infin che questa
Ne filtra per le rechie, e che ne restaPer gustarla una testa.
Un altro convegno, più fecondo di osservazioni e di argomenti di satira, era il teatro. Tutti sanno che cosa fosse il Fenice allora: uno dei primi teatri d’Europa per lo splendore delle rappresentazioni, la frequenza di artisti famosi, l’incredibile concorso dei forastieri. Per uno spettacolo al Fenice si veniva fin da Parigi. Spettacolo in sè stesso gradito, amabilissimo, erano le signore eleganti che affollavano fulgide come stelle i palchetti, avvincevano tanti cuori, e sfioravano tante vergini anime con l’artiglieria delle occhiate.
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