- Ed io resto senza terra, ed egli la semina a grano a conto suo, e con grande profitto, perché sette are governate a quel modo che i cocomerai richieggono, gittano il quindici. Su per giú, mio buon signore, per adoperarci che facciamo, l'opera giornaliera a noi poveri braccianti frutta sempre una lira. Se io fossi fittaiuolo, sarebbe altrimenti". "E perché non lo siete?" "È facile il dire il perché; ma la sappia che per sette are di terreno come queste, a volerle in fitto, dovrei pagare al proprietario 212 lire!"
La terza classe dei nostri ortolani versa in condizioni assai migliori. Questi non coltivano cocomeri, ma erbaggi, hanno lavoro e frutto da un anno ad un altro, non tolgono mai i terreni a mezzadria, ma a fitto, e il voluto per sette are non eccede le cento e sei lire. Questa classe può dirsi ricca. I loro proverbi son due: L'uortu è nu puortu; per fari buonu l'uortu ci voli n'omu muorto. L'orto è dunque per loro un porto di mare, una sorgente inesausta di denaro, dove un prodotto cessa ed un altro comincia. Cosí ad agosto, imporcato che si è il terreno, sopra una faccia del porchetto si pianta il broccolo, e sulla faccia opposta la invidia o scariola che voglia dirsi; poi dentro ottobre quindi la sverza, e quinci la fava, o il finocchio, o il cavolo a torso, o il cavolo a palla, o il cavolfiore, poi finiscono le sverze, e si mettono nel loro luogo le barbabietole (carote), le bietole (secre), le carote (pastinachi), i sédani (acci), e via discorrendo. Ciò che non si coltiva negli orti nostri sono il radicchio, o cicoria, il cappero, la fragola, il lampone, il cardone, la procacchia (purchiaca) ed altre poche, che vengono su spontanee per prati e boschi, e che le donne dei braccianti raccolgono e vendono.
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