Capitolo V.
La cremazione è inumana
Oh! quanto e quanto è soave la mestizia, allorché in certi momenti tetri e lugubri, si ripensa ai cimiteri delle nostre città, ai modesti camposanti dei nostri paesi e villaggi. Non si può fare a meno di non esclamare: O patria, tu che ci fosti cara non solo per le aure vitali che fanciulli, nel tuo seno respirammo, per le case che in vita ci albergarono, ma anche per quei campi benedetti, dove prima di noi, han trovato asilo parenti, congiunti ed amici.
Quanti non sono coloro che, morendo lontano dal natio paese, chiedono imperiosamente agli assistenti che i loro resti mortali siano trasportati laddove la voce della patria sembra che reclami i vivi ed i morti!... Una legge di natura è certamente una legge di amore e di umanità; sospinge gli uomini a riunirsi in un solo asilo, affinchè rimanga, dopo morte, quella unione che mantennero in vita, e che affatto non si ruppe con la morte.
Senza dubbio il pensiero tetro della morte incute un sentimento di grande mestizia ed orrore, ma è un sentimento che pur vi obbliga a recarvi di quando in quando presso la tomba di vostro padre, della amatissima madre, del vostro fratello, della vostra sorella, del vostro zio e di quanti avete conosciuti ed amati in vita, e là impietriti vi costringe a troncare profani discorsi e v'impone a scoprirvi il capo, a piegare le ginocchia, e dal vostro cuore sa strappare una prece, dagli occhi vostri sa spremere delle lagrime di dolore. Tutto questo non è forse vero? La santità del luogo, unita a tante rimembranze, v'infonde poi una soavità di dolore che si trasmuta in un indefinito conforto.
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