Registriamo un altro successo clamoroso; anzi - se dobbiamo adoperare la giusta parola - delirante. Ecco la cronaca della prima rappresentazione, che ha avuto luogo iersera, dell'opera in un atto I Compagnacci, premiata al Concorso governativo del 1922, del musicista abruzzese Primo Riccitelli, su libretto di Giovacchino Forzano: dopo vari applausi a scena aperta, alla chiusa dell'opera c'è stata una ovazione scrosciante: artisti, direttore, autore, e poi l'autore solo, sono stati chiamati al proscenio - fra la crescente tempesta dei battimani - non so che numero di volte, certo una quindicina: pestate di piedi, ululati di gioia, sventolii di fazzoletti. Il buon maestro Riccitelli - alla cui simpatica figura e alle cui trascorse vicende, che lo hanno educato ad un senso ben amaro e bizzarro della vita, accenneremo più innanzi - ne avrà avuto certamente una tale impressione da non dormirci per varie notti: altro che sonno pacifico e profondo di Rossini dopo la "famigerata" prima del "Barbiere di Siviglia!".
Dinanzi a simili accoglienze, quasi quasi si sarebbe tentati a limitarsi al semplice lavoro di cronaca, nel timore che una qualsiasi nostra osservazione potesse menomamente turbare la gioia del trionfo, e danneggiare nel suo cammino l'opera venuta alla luce. Credete a me non c'è da avere nessuna preoccupazione di ciò: se l'opera d'arte esiste, nella sua prepotente e infrenabile forza di vita, nello sfolgorante, letificante splendore della sua luce, non c'è osservazione o riserva di chicchessia che possa impedirne l'affermazione, arrestarne il cammino. Dirò di più: sarebbe sufficiente che essa sia stata ascoltata dal pubblico una volta, come iersera è stato, perchè - anche se, poniamo caso, interessi o altre cause qualsiasi ne impedissero, dopo la prima, altre esecuzioni per anni - essa dovesse fatalmente (in forza dell'impronta lasciata nell'animo di quel pubblico, impronta che agisce e si diffonde e si ingigantisce con fascino irresistibile) un giorno tornare alla luce e riaffermarsi a vita piena. Possiamo dunque parlare tranquilli.
E faremo una prima osservazione sul fenomeno pubblico, sul fenomeno-ambiente di iersera. Se si pensa che, quello stesso ambiente (cioè l'ambiente musicale italiano) che ha glorificato in tal modo il Riccitelli, fino al punto che, se, invece che in un teatro con la barriera della ribalta fra pubblico e artisti si fosse trovato in una strada, lo avrebbe sollevato in trionfo, e, se avesse avuto a sua disposizione dei rami della pianta sacra ad Apollo, lo avrebbe incoronato di lauro, quello stesso ambiente musicale (dico) ha permesso (e direi voluto) che il Riccitelli, che non da oggi ha dimostrato le sue attitudini geniali, giungesse all'età di circa cinquanta anni senza fargli fare (dico "fare" nel senso di lavorare con frutto e con gioia, e affermarsi alla luce) nulla, o quasi nulla; lo ha costretto, e non per breve tempo, alla fame; lo ha sottoposto alle più penose e distruggenti torture a cui si possa sottoporre un artista. E il Riccitelli - se non avesse avuto il conforto spirituale dell'affetto e della parola di una sola persona, del suo maestro Pietro Mascagni e forse talvolta l'obolo di qualche amico generoso - avrebbe dovuto già venti o trent'anni fa cambiar mestiere; o, se avesse voluto insistere nel suo sogno di artista, nelle sue lotte acerbe, in quei moti irrefrenabili di vita per cui l'uomo geniale non può, alla fin fine, esser diverso da se stesso, non può mutarsi - anche a costo di affrontare la fame o l'annientamento - da quello che la natura prepotentemente lo ha creato, sarebbe dovuto morir di stenti e di crepacuore.
Questo molti pensavano o intuivano iersera, cercando forse di soffocare nell'impeto generoso e rumoroso dell'applauso, una qualche traccia di rimorso. Il caso Riccitelli - il caso cioè di musicisti di cui si sa (e anzi forse si sa troppo bene) che possono "fare" e "far molto", e che vengono tenuti a languire, e costretti al silenzio - non è in Italia un caso isolato. Si potrà esclamare: "meglio tardi che mai". No; sarebbe il caso piuttosto, dato il modo con cui il "tardi" oggi può verificarsi, di dire: "Meglio mai, che tardi". e, in sostanza, occorre questo: che in Italia i musicisti migliori vengan tolti dalla atmosfera asfissiante in cui sono costretti a vivere; e che si creino loro delle possibilità di libera concorrenza, di pace e di lavoro che oggi (tranne che per pochissimi privilegiati) non esistono. Sul che - raccogliendo i documenti dei casi tipo Riccitelli - molte cose, pel risanamento del nostro ambiente musicale e per l'avvenire dell'arte nostra, dovranno mettersi in luce.
Premesso questo, passiamo ad appagare - nei limiti del possibile - la curiosità del lettore sul favore del lavoro iersera in tal modo portato alle stelle.
Nel tenere tale apprezzamento dobbiamo richiamare alcune basi già da noi poste, parlando di precedenti opere nuove. Il lettore ricorderà le domande che formulammo a proposito della "Grazia" di Michetti. C'è - ci domandammo in un primo gradino - la "novella sceneggiata", il "film"? Rispondemmo affermativamente; ed affermativamente dobbiamo rispondere nel caso dei "Compagnacci".
Giovacchino Ferzano è - come è noto - in tal campo un abilissimo ricercatore e imbastitore. Basterebbe ricordare il libretto del "Gianni Schicchi", che tutti iersera avevano presente, e che ha moltissima analogia, come ambiente, come tipo, come colore, con quello dei "Compagnacci". (Lo "Schicchi" è, secondo me, anche dal lato puramente del libretto, molto superiore: ne accennerò più innanzi il perchè).
Tutti iersera erano concordi nel proclamare quella dei "Compagnacci" un bellissimo libretto. Già, oggi non si fa distinzione fra "soggetto" e "libretto": il "libretto" è nientedimeno che il soggetto passato a traverso la musica: una cosa da nulla! E poi oggi non si guarda (almeno al primo abbaglio), nell'intimo e nel profondo; epidermide e cuore, ombra e persona, fantoccio e creatura vivente, orpello e oro, gioco meccanico e brivido vivente, fronzolo retorico ed espressione di vita e di pensiero son la stessa cosa.
Il libretto del Forzano - che si svolge sullo sfondo festoso, e pittoresco di bizzarria e di contrasti, della Firenze quattrocentesca - presenta un succedersi di scene abilissimamente misurate e congegnate, tali da tenere avvinta continuamente l'attenzione dello spettatore. Non ne ripeteremo un riassunto: ne forma il bocciolo una "gesta" dei "Compagnacci", la brigata discola e burlona di giovani fiorentini: scopo della gesta è di mandare a monte un matrimonio di una bella fanciulla che lo zio bigotto vuol dare sposa ad un bel gaglioffo, mentre invece è fidanzata e innamoratissima di uno dei più simpatici e vivaci fra i "compagnacci". L'impresa si svolge fra discese da camini, appiattimenti entro casse ed armadi, tafferugli, scommesse; sullo sfondo di un episodio della religiosità piagnonesca, una sfida tra due frati, cui il popolo assiste nella piazza sottostante e di cui a traverso le finestre si odono le tumultuose vicende. A proposito di questo episodio si nomina il Savonarola; e ciò forse poteva essere evitato, senza che nulla si perdesse del voluto colorito e contrasto.
Come si vede, ce n'è abbastanza per intessere un "film" o una breve commedia, con cui riempire una sala di cinematografo o un teatro per varie settimane. Ed il Forzano è a ciò riuscito con quella consumata bravura che tutti gli riconoscono.
Quanto alla musica, il Riccitelli, oltre ad essere un musicista tecnicamente degno di tutto il rispetto, ha due titoli di superiorità sui suoi colleghi che l'hanno di fresco preceduto al Costanzi. Egli è innanzi tutto un mascagnano schietto: "la genialità e il fascino di Mascagni - del vero Mascagni, intendiamoci, non di quello falsificato da lui stesso e da altri - è tale che anche nei suoi discendenti diretti qualche cosa del suo impeto, del suo fervore, della sua melodiosità, della sua musicalità, necessariamente rimane, si trasmette "per li rami". Oltre a questo, il Riccitelli è un abruzzese; e cioè di quella terra eminentemente musicale in cui tutti cantano, in cui non c'è piccolo paese in cui il culto e le tradizioni per la musica non siano nello spirito e nel sangue; della terra di Francesco Paolo Tosti: e sia permesso a me ricordarlo - appartenente ad una regione vicina e stretta sorella - ho nutrito la mia giovinezza musicale e quella stessa fonte freschissima e inesauribile di melodiosità, di musicalità popolare, scaturita dalla terra.
Ciò conferisce alla musica del Riccitelli dei caratteri di sanità e di scorrevolezza che la distinguono dalle grette, aride costruzioni della scuola e dalla afasia, dalla balbuzie e dalla sterilità intellettualistica di certe cerchie musicali che negli ultimi tempi sono andate per la maggiore, e che noi non ci siamo stancati mai un momento di combattere.
Tali pregi del Riccitelli sono tali da controbilanciare, da vincere i difetti organici, i vizi costituzionali che nella sua opera non mancano, difetti da attribuirsi più che a sua colpa al modo stesso con cui le opere di oggi nascono, e sui quali non occorre ci ripetiamo, avendone più volte in precedenti occasioni fatto cenno? E' quello che ci auguriamo, e che il pubblico, giudice sereno e inesorabile, stabilirà dopo poche repliche.
Un'ultima osservazione di natura sintetica e che riguarda insieme libretto e musica, unità nel melodramma inscindibile. Dicemmo, a proposito della Grazia, che non c'è esempio, in tutta la storia dell'arte, di melodramma che viva senza la musica, intesa e realizzata nel senso pieno, integrale, sovrano della parola. Aggiungiamo ora che non c'è melodramma il quale viva senza che contenga almeno un carattere una figura musicale vivente, un personaggio cioè in cui, non solo drammaticamente, ma musicalmente, sia racchiuso, espresso, strappato alla vita un qualche lembo, un qualche aspetto, una qualche faccia eterna e universale dell'anima umana. Rigoletto è Rigoletto; Violetta è Violetta; Azucena è Azucena; Figaro è Figaro; Don Giovanni è Don Giovanni; Carmen è Carmen; Lohengrin è Lohengrin; e (sia pure) Mimì è Mimì; Manon è Manon; Santuzza è Santuzza; Suzel è Suzel; Schicchi è Schicchi. Ecco perchè io credo che il Gianni Schicchi (unità inscindibile poetica-musicale) sia superiore ai Compagnacci. Non si può dire, nei "Compagnacci" che Baldo sia Baldo, Anna Maria sia Anna Maria, Bernardo sia Bernardo. Come, nelle opere precedentemente ascoltate, che Petronio sia Petronio, Elias sia Elias. Il che si estende anche ai personaggi di sfondo: nessuno potrà sostenere che il Giovannetti abbia fatto di Nerone una creazione musicale, e che il Riccitelli l'abbia fatta di Savonarola. Eppure nel Barbiere Berta è Berta, nel Boris Godunov l'Idiota è l'Idiota. Ecco perchè quelle opere vivono, circolano, esercitano ed eserciteranno un fascino perenne.
In questo mi pare sia la maggior manchevolezza del nuovo lavoro di Ferzano e Riccitelli. All'omaggio di simpatia e agli applausi augurali tributati al quale ci associamo di gran cuore (le nostre osservazioni non diminuiscono per nulla la nostra stima ed ammirazione pel valoroso musicista) per le ragioni sopra accennate, e con la penna che veramente "sa le tempeste".
L'impresa del Costanzi ha offerto anche di quest'opera una eccellente esecuzione. tutti gli artisti sono apparsi scelti con felice rispondenza, per qualità tecniche e vocali, alla parte.
La Parisini è stata una Anna Maria graziosa e dal canto appassionato ed espressivo; il tenore Cortis ha impersonato giovanilmente la figura di Baldo - il "compagnaccio" innamorato - con freschezza di voce e vigoria di accenti; ottimo - come sempre - il Parvis, Bernardo piacevolissimo e caratteristico, cantante, dicitore ed attore mirabile; la Bertolasi vivace e procace fantesca; il Nardi è apparso una buffissimo Neferi, e ne ha cantato da perfetto... tenore di grazia le melodiche effusioni amorose; a posto il De Vecchio, Venanzio e gli altri molti nelle numerose figure di sfondo.
Bellissimo il coro nella non facile parte, felice la messa in scena.
Il maestro Santini ha concertato e diretto il lavoro con quella esperienza, quella coscienziosità e quella passione che egli pone in tutte le manifestazioni della sua attività artistica: è stato - assecondato dalla valentissima orchestra - un fraterno collaboratore del Riccitelli, e ha condiviso con lui giustamente l'applauso.
I Compagnacci si replicheranno venerdì, insieme con La Grazia; riunendosi essi in un solo spettacolo due pregevoli nuove manifestazioni di quel teatro lirico italiano, verso cui è ormai tempo che il nostro pubblico torni a rivolgere l'attenzione, la simpatia, la fiducia.
Domenico Alaleona
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