(Da Le Novelle, Parte terza, novella LXV)
CASTIGO DATO A ISABELLA LUNA MERETRICE
PER LA INOBEDIENZIA A LI COMMANDAMENTI
DEL GOVERNATORE DI ROMA
C
HI sia l'Isabella de la Luna spagnuola, credo che la più parte di voi lo sappia, avendo ella lungo tempo seguitato per l'Italia e fora l'essercito de l'imperadore, nel quale altre volte molti di noi che qui siamo avemo militato. Ella, tra molte sue taccherelle puttanesche, ha che in ogni azione sua è la più soperba che trovare si possa. Dopo il discorso suo fatto a' servigi de li soldati besognosi che volentieri cavalcano per lo piovoso, si ridusse in Roma, ove per l'ordinario attendeva prestare il corpo suo a vettura a chi meglio la pagava. Avenne che, devendo dare a uno mercatante certa somma di danani per robe che da lui prese aveva, andava menandolo in luogo e con parole d'oggi in dimane differendo il pagamento, che volontieri avena scontato con tante vetture del corpo suo. Ma il mercatante, che voleva denari e non la pace di Marcone, non le prestava orecchie, ma la sollicitava che sodisfacesse al debito. Al fatto del pagamento ella faceva sempre il sordo. Il che veggendo il mercatante, e conoscendo che se non usava altri mezzi non era per essere forse mai pagato, andò a trovare il governatore de la città di Roma, che era monsignor de' Rossi vescovo di Pavia; e narratogli il caso suo, ottenne da lui una citazione a l'Isabella, che devesse il tale dì a tale ora comparire personalmente innanzi al tribunale di esso governatore. Andò il sergente de la corte a trovare l'Isabella al di lei alloggiamento, e ritrovò quella su la strada publica, che si interteneva a parlamento con alcuni compagnoni. Diedele il sergente il commandamento, e a bocca ancora, a la presenza di tutti quelli che con lei erano, le commandò che comparisse al determinato tempo, come è la costuma di fare. Ella, che tra l'altre sue notabili parti bestemmia crudelissimamente Iddio e tutti li santi e sante del paradiso, come ebbe in mano la cedula de la citazione, con disdegnoso viso al sergente, tutta piena di colera e di stizza, disse: - Pesa a Dios, que quiere esto borrachio vigliaco? - Dopoi le parole, vinta da la soverchia colera, straziò in più pezzi il papéro de la citazione, e con irreverenza e scherno, a la presenza di tutti gli astanti, così sopra le vestimenta, su le parti deretane, come se il corpo purgato avesse, se ne forbì il mal pertugio; e poi la carta così lacerata sdegnosamente al sergente restituì, dicendoli che andasse al chiasso. Egli, preso lo straziato papèro, quello presentò al luogotenente del signor governatore, e minutamente li narrò la risposta de l'Isabella e tutti gli atti che quella fatti avea, gabbandosi di lui. Il luogotenente, sentendo tanta enorme temerità e presonzione di una sfacciata meretrice, riferì il tutto al signore governatore, dimostrandogli essere la presonzione de quella femina uno atto molto importante e di pessimo esempio, in gravissima dispregio de l'officio, e meritevole di acerbo gastigo, acciò che imparassero gli altri a non incorrere così presontuosamente in desprezzare gli officiali del magistrato, e non si fare sì poco conto de li commandamenti di quello. Parve al signor governatore che cotale eccesso non si devesse così di leggiero passare, ma che fosse necessario farne alcuna dimostrazione. Tuttavia, pensando la delinquente essere femina e meretrice publica, non volle in tutto usare quella rigidezza e severità che il caso ricercava. Nondimeno, acciò che impunita la temeraria presonzione de l'Isabella non andasse, la fece dal bargello publicamente pigliare e condurre a le prigioni de la torre di Nona. Esaminata dal giudice, che prima prese il constituto di quella, al tutto rispondeva di modo che pareva che si burlasse e che il fatto non pertenesse a lei. Confessò poi il debito di quei danari che al mercatante era debitrice, e dimandava termine di parecchi mesi a pagarlo. Ma perché l'anno era già passato che aveva prese le robe, fu condannata a pagarlo intieramente prima che uscisse fore di pregione, E considerando ella che dimorando dentro la prigione la sua bottega grandemente pendeva, non possendo in quello luogo il suo molino macinare, ebbe, non so come, modo di pagar
e il mercatante. Pensando poi essere libera e andarsene a casa senza altra pena, il giudice prononziò contra quella una sentenzia: che dal boia su la publica strada le fessero date su il culo ignudo cinquanta buone stafilate. Publicata la sentenzia, il giorno che si eseguì concorse mezza Roma a così nobile spettacolo. Fu da uno gagliardo sergente levata sovra le spalle, e ne la via publica il boia le alzò li panni in capo e le fece mostrare il colliseo a l'aria, e con uno duro stafile cominciò fieramente a percuoterla su le natiche, di modo che il colliseo, che prima monstrava una candidezza assai viva, in poco di ora tutto si tinse in color sanguigno. Ella, avute sì fiere e vergognose battiture, come le furono calate a basso le vestimenta e dal sergente lasciata in libertà, fece come il cane mastino, che uscendo fora del covile, de la paglia tutto si scuote e se ne va via. Fece ella il medesimo, e ancora che le natiche le dolessero, nondimeno se ne andava verso casa senza monstrare in viso uno minimo segno di vergogna, come se da uno paio de nozze se ne ritornasse.
|