Era manifesto che queste provincie contenute soltanto dalle armi di mercenari stranieri, se non ottenessero la guarentigia di governo civile che io proponeva, sarebbero tosto o tardi venute in termine di rivoluzione.
Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle potenze al Re Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel Congresso di Parigi furono proferiti sul suo Governo, preparavano naturalmente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della diplomazia.
Al giovane Suo Successore io mandai offerendo alleanza per la guerra dell'indipendenza. Là pure trovai chiusi gli animi ad ogni affetto italiano e gli intelletti abbuiati dalla passione.
Era cosa naturale, che i fatti succeduti nell'Italia settentrionale e Centrale, sollevassero più e più gli animi nella Meridionale.
In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero devoto all'Italia ed a Me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano italiani che soccorrevano italiani; io non potevo, non dovevo rattenerli!
La caduta del Governo di Napoli riaffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario ai Re l'amore, ai Governi la stima dei popoli!
Nelle due Sicilie il nuovo reggimento si inaugurò col mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene si interpretasse, per ogni rispetto, quella politica che è dal mio nome rappresentata. Tutta l'Italia ha temuto, che all'ombra di una gloriosa popolarità e di una probità antica, tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino trionfo nazionale, alle chimere del suo ambizioso fanatismo.
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