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      Mi trovai quindi al tu per tu con un frate professore e confessore, e col cappellano. Ripugnavami la presenza del frate, e d'altro canto non osava dipartirmi dalle raccomandazioni del Generale. Mi gli mostrai poco benevolo, assistetti in attitudine di diffidenza alle sue lezioni, censurai il suo metodo d'insegnamento, ma egli imperterrito faceva orecchie da mercante. Gli dissi un giorno che io non poteva comportare la cumulazione di due impieghi, e ch'ei scegliesse fra la cattedra e il confessionale.
      - Scelgo il confessionale.
      - L'uffizio di confessore non ha stipendio: non posso stipendiare un sacramento.
      - Sta bene; e poiché debbo mangiare, accennando in ciò dire alla propria persona di sei piedi, m'atterrò alla cattedra.
      Battuto su questo terreno, immaginai di conferire ai professori e agl'impiegati un grado militare nominale, coll'obbligo di portarne il distintivo sul berretto. Il frate, antiveggendo l'ilarità della scolaresca per lo strano accoppiamento del berretto di luogotenente con la cocolla di San Francesco, chiesemi tempo a decidersi e più non ricomparve.
      Ma non così mi è venuto fatto di sbarazzarmi del cappellano, che stavasi abbarbicato al suo posto come edera a muraglia. Era uomo di media statura, sui cinquant'anni, d'occhio fine e astuto, di modi ossequiosi: non diceva mai no; però sull'apparente condiscendenza intesseva difficoltà, distinzioni, obbiezioni, onde venivagli detto no di seconda mano.
      Ito il frate, dopo lungo discorso sui privilegi antichi del clero di Sicilia, che lo mantengono relativamente indipendente dalla Santa Sede e pertanto estraneo alle sue vicende e alle sue passioni politiche, m'insinuò la proposta di assumersi egli l'officio della confessione, sin che avessi nominato un confessore fisso.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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