NOVELLE ITALIANE DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO


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     (Novella LXIII)



     RE MARCO SUL PINO
     Qui conta della Reina Isotta, e di messer Tristano di Leonis.

     A
     MANDO Messer Tristano di Cornovaglia Isotta la bionda, moglie del Re Marco si fecero tra loro un segnale d'amore di cotal guisa; che quando Messer Tristano le volea parlare, si andava ad un giardino del Re dov'era una fontana, e intorbidava il rigagnolo che facea la fontana, e andava questo rigagnolo per lo palazzo dove stava la detta Madonna Isotta. E quando ella vedeva l'acqua intorbidata, si pensava che Messer Tristano era alla fonte. Or avvenne c'uno malavventurato giardiniere se n'avvide, di guisa che li due amanti neente il poteano credere. Quel giardiniere andò a lo Re Marco e contolli ogni cosa com'era. Lo Re Marco si diede a crederlo. Si ordinò una caccia, e partissi da' suoi Cavalieri, sì come si smarrisse da loro. Li Cavalieri lò cercavano erranti per la foresta; e lo Re Marco n'andò in su il pino che era sopra la fontana ove Messere Tristano parlava alla Reina. E dimorando la notte lo Re Marco sul pino, e Messere Tristano venne alla fontana e intorbidolla. E poco tardante, la Reina venne alla fontana. Ed a ventura l'e venne un bel pensiero, che guardò il pino. E vide l'ombra più spessa che non solea. Allora la Reina dottò, e dottando ristette, e parlò a Tristano in questa maniera e disse: disleale Cavaliere, io t'ho fatto qui venire per potermi compiangere di tuo gran misfatto, ché giammai non fu in Cavalier tanta dislealtade quanta tu hai per tue parole, ché m'hai onita e lo tuo zio Re Marco che molto t'amava: ché tu sé ito parlando di me intra li erranti Cavalieri cose che nello mio cuore non poriano mai discendere. E innanzi darei me medesima al fuoco, che io onissi così nobile re come monsignore lo Re Marco. Onde io ti disfido di tutta mia forza, sì come disleale Cavaliere, sanza niuno altro rispetto. Tristano udendo queste parole, dubitò forte, e disse: Madonna, se malvagi Cavalieri di Cornovaglia parlan di me tutto, primamente dico che già mai io di queste cose non fui colpevole. Mercé, donna, per Dio, elli hanno invidia di me; ch'io giammai non feci né dissi cosa che fossi disinore di voi né del mio zio Re Marco. Ma dacché vi pur piace ubbidirò a' vostri comandamenti. Andronne in altre parti e finir li miei giorni. E forse, avanti ch'io mora, li malvagi Cavalieri di Cornovaglia avranno soffratta di me, sì come elli ebbero al tempo dello Amoroldo, quando io diliverai loro e loro terre di vile e di baido servaggio. Allora si dipartiro sanza più dire. E lo Re Marco che era sopra loro, quando udì questo molto si rallegrò di grande allegrezza. Quando venne la mattina, Tristano fe' sembianti di cavalcare. Fe' ferrare cavalli e somieri. Valletti vegnono di giù e di su: chi porta freni, chi selle; il tremuoto era grande. Il Re s'adirò forte del partire di Tristano, e raunò Baroni e suoi Cavalieri, e mandò comandando a Tristano che non si partisse sotto pena del cuore sanza suo commiato. Tanto ordinò il Re Marco, che la Reina ordinò e mandolli a dire che non si partisse. E così rimase Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso né ingannato, per lo savio avvedimento ch'ebbero in tra lor due.


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